Jimi Hendrix a Milano

Il 23 maggio del 1968 Jimi Hendrix tenne un unico concerto al Piper di Milano. Fabio Treves c’era. Pubblichiamo la sua puntuale testimonianza e una sua fotografia. ()
HENDRIX 12
Il Maggio ‘68? Certo che me lo ricordo bene, a distanza di 52 anni i ricordi sono nitidi e per niente sfuocati, e non sto parlando di manifestazioni pacifiste o cortei studenteschi, ma di uno dei momenti più belli della mia vita: l'incontro con il mitico genio di Seattle Jimi Hendrix.

Ero uno studente liceale di "mediocri speranze" e la Milano alternativa che cercava di imitare la "Swinging London" di Carnaby Street a Londra si stava preparando ad accogliere nel migliore dei modi il chitarrista mancino che con il suo trio stava imponendosi all'attenzione dello sterminato pubblico del rock. Il suo primo vinile aveva fatto impazzire il giovane Treves che aveva trovato negli Experience un trio rivoluzionario che, influenzato dalle radici della musica nera, aveva fatto conoscere a un'intera generazione di giovani appassionati le radici più profonde della musica nera stessa.

Il Piper era un locale frequentato da studenti che lì si davano appuntamento per ballare e per ascoltare i gruppi che arrivavano dall’estero per proporre il beat, il genere che furoreggiava in Italia, a Londra si chiamava pop, e in America lo definivano semplicemente rock. Era il 23 maggio, erano previsti due concerti, uno pomeridiano e uno serale. Il primo saltò, l’organizzatore, il mitico e compianto Leo Wächter, avvisò i non tantissimi giovani convenuti che per motivi legati allo sdoganamento degli strumenti alla frontiera l’unico show sarebbe stato quello che sarebbe iniziato verso le 21. Ma molti si rifiutarono di uscire e con la minaccia di far casino (cosa che a molti, me compreso, riusciva molto bene) ottennero dagli organizzatori il “permesso” di poter assistere, senza esborso alcuno, allo spettacolo serale.

Faceva caldo e non prendemmo neanche male l’invito ad uscire nell’ampia veranda che dava sul Parco Sempione, per permettere ai tecnici di montare senza impicci il palco e la strumentazione che arrivò verso le 19.
Ad un certo punto però in noi cominciò a serpeggiare la paura che si fosse trattato del solito e classico stratagemma di chi parlava a “noi giovani” con lingua biforcuta, per lasciarci fuori dal locale. Con ampi ed eloquenti gesti facemmo capire che eravamo disposti a tutto, e anzi pretendemmo e ottenemmo di avere i posti più vicini al palco in quanto noi rappresentavamo coloro che erano lì da ore e potevano essere considerati, l’ala dei duri e puri.
Io mi ero portato per l’occasione una macchina fotografica compatta, cioè a fuoco fisso, di plastica dura che aveva al posto del rullino classico una cartuccia con 12 foto, sto parlando della leggendaria Kodak Instamatic…
Prima del concerto, e subito dopo le prove del suono, ci aprirono le porte ed entrammo,ordinatamente, come avevamo convenuto con Wächter.

Riuscii anche ad avvicinarmi a Jimi, e con il coraggio a due mani, in un improponibile inglese maccheronico, me ne uscii con la prima pirlata che mi passò per la mente:”Hi Jimi, Fabio is my name, I was born the 27 November, the same day of your birthday”. Una persona normale mi avrebbe mandato a quel paese, pensare a un incontro simile al giorno d’oggi è fantascienza, allora 52 anni fa era normale. Non c’erano body guard, la musica era fatta anche di questi piccoli fatti, di questi incontri, che oggi sono storia, leggenda metropolitana.
Lui mi sorrise, mi allungò la mano, aveva una sigaretta perennemente tra le mani e se la portò all’angolo della bocca. Qualcuno ci fece una foto che purtroppo dopo innumerevoli ricerche non ho mai ritrovato. Però, come io ho conservato le foto che vi mando, forse qualcuno ha quella fotografia, io non dispero. Iniziò il concerto, io ero a pochi passi dal mio mito, estrassi la mia piccola macchina, nessuno mi disse niente, e cercai di scattare quante più foto possibili.

Il giorno dopo trepidante portai i rullini a sviluppare e dovetti aspettare diversi giorni per vedere i risultati ottenuti: erano tutte belle, nitide, dei bianchi e nero favolosi. Ero un giovane abbastanza “boccalone” e, per dabbenaggine, consegnai foto e rullini a un mio “amico” che collaborava a Ciao 2001, una delle riviste musicali che allora andavano di moda tra i giovani. Non li rividi più. Furono pubblicati ne sono certo, ma non li rividi più. Per fortuna che un rullino rimase a me e quei negativi adesso fanno parte della mia vita. Certo non sono foto da Premio Pulitzer, ma ogni volta che spedisco una di quelle foto mi viene la pelle d’oca. Mi viene in mente il sorriso di Jimi, quelle sue dita magre e affusolate, quella sua giacca floreale arancione, la sua caratteristica acconciatura, cotonata pettinatura e quella sua carnagione da “indiano nativo”.

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