In piedi nel caos

Le tinte del dramma sono molto fosche, ma in fondo al tunnel si vede la luce. In scena all’Elfo Puccini sino al 2 febbraio. ()
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Il contesto. Nel 1995 è in pieno svolgimento la prima guerra di Cecenia che vede contrapposti l’esercito russo e la resistenza locale che sostiene l’indipendenza.
Dopo il crollo dell’impero sovietico, il primo presidente della Repubblica Russa Boris Eltsin è malamente impegnato nella definizione di contenuti e confini di una nazione in ricostruzione.
A Mosca, nello squallore estremo di un appartamento comune, si intrecciano le storie di alcuni personaggi duramente provati dalle traversie della vita.

Yuri è un giovane reduce dal fronte ceceno, minato nel corpo da una cancrena alla gamba e nello spirito da un malessere lacerante. La sua giovane moglie Katja non riesce a darsi ragione di tanto degrado umano e cerca disperatamente una via d’uscita. Con loro vivono una vecchia signora, ultima superstite della ricca famiglia che un tempo era proprietaria di quell’appartamento, e Grisha, un giovane malavitoso che finirà ben presto anche lui vittima della guerra.
Dietro le quinte, il vecchio padre di Yuri si consuma in un letto, pisciandosi addosso.
La scena è interamente occupata da un interno deteriorato, di povertà estrema, illuminato/oscurato da una grande vetrata, collegamento precario con l’esterno che, si immagina, altrettanto disgregato.
Nella cucina comune, dove spesso i personaggi sono occupati nella caccia allo scarafaggio, si consuma il dramma di conflitti umani mai risolti, in una escalation di malessere e di disperazione che sembra inesorabilmente portare a una discesa agli inferi irreversibile.

Yuri è devastato dai ricordi della guerra che cerca di affogare in pessimi intrugli alcolici, in un progressivo disfacimento di corpo e anima. Katja vaga alla vana ricerca di una soluzione anche accettando momentanei sotterfugi. La vecchia è ossessionata dai fantasmi del passato, suoi e di un’intera comunità, lo stalinismo, la deportazione in Siberia, la delazione che ha distrutto la sua famiglia.
In un contesto così decadente, in un improvviso e inaspettato cambio di registro, si aprono spiragli di speranza in concomitanza con l’attesa di una nuova vita.
Per dirla con Brecht: “Quando gli si danno due manate di terra, quasi ogni uomo ha amato il mondo”.
Da un interessante e intenso testo di Véronique Olmi, Elio De Capitani ricava una regia cupa, utilizzando anche espedienti cinematografici (il fermo immagine) e svariati cambiamenti di luce.
Il degrado umano, ai limiti del sopportabile, è però significato ed esternato da qualche grido di troppo dove, forse, sarebbe stato meglio preferire il sussurro.
Applausi dal pubblico della prima per lui e per gli interpreti: Cristina Crippa, Carolina Cametti, Angelo Di Genio e Marco Bonadei.

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