Danae e il teatro dell'accoglienza


Il festival Danae, consolidato appuntamento annuale nel panorama artistico milanese, è arrivato alla XIV edizione. Fino al prossimo 14 aprile propone un programma come sempre innovativo di teatro, danza e performing art. La curiosità ci ha spinto dietro le quinte per intervistare l'anima femminile del festival, Alessandra De Santis che, insieme ad Attilio Nicoli Cristiani, ne cura la direzione artistica e organizzativa.
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Alessandra ci accoglie con il suo sorriso contagioso, occhi attenti e mobili, parlata fluida, variegata che tradisce l'origine partenopea.

Alessandra, regista ma anche attrice. Come nasci?
Beh, non ci crederai, ma ho iniziato la mia formazione dopo aver lavorato per anni come impiegata ma quella, ovviamente, non era la mia volontà e quindi il mio destino. Ho studiato e quando mi sono sentita più forte, ho deciso di volermi occupare solo di teatro. Persona fondamentale nel mio percorso è stato Dario Manfredini, che mi ha lasciato un messaggio fondamentale per la mia formazione e cioè di quanto fosse importante la presenza e il lavoro sul corpo, prima di aprire bocca. Quindi ho studiato con persone che lavorano sul corpo a vario titolo. Da qui il mio interesse, anche come direttrice del festival, per lavori che mescolino vari codici, dal teatro alla danza, fino alla performing art.

Come artista, quali sono i temi su cui stai lavorando attualmente?
Il tema della memoria, dell’infanzia. Dalla morte di mio padre, con cui ho avuto un rapporto importantissimo per me, ho ripercorso momenti, legami vivendone anche la fragilità. Il percorso della memoria è però complesso... ritornare alle radici e allontanarsene. A noi, in un certo senso, "vendono" questa idea delle radici, ma credo sia un’idea pericolosa. Io so no molto legata alla mia terra, vengo da Napoli, ma per crescere bisogna spostarsi e soprattutto accettare che gli altri si spostino. Attualmente vogliamo dimenticarci che ogni incontro è l’incontro con uno straniero: sia che venga dal piano di sotto o da un’altra Terra, è comunque altro da me. Lo si deve incontrare per crescere. Questo vale in modo particolare per un artista che non sente di appartenere a un luogo preciso. Nel presentare i lavori di questa edizione, scrivi che gli artisti scelti sono “affetti da nomadismo che è anche dell’anima”, per sottolineare la necessità, in questo momento storico, di spostarsi dalle proprie radici per incontrare l’altro. Allontanarsi dalle proprie radici non significa, tuttavia, rinunciare alla nostra propria memoria.

Parlando del festival, spesso in Italia il linguaggio usato dalla performing art rimane, purtroppo, all’interno di una nicchia elitaria. Secondo te esiste un modo per arrivare a un pubblico più vasto?
L’affluenza di pubblico è insondabile, però il problema dell’esistenza di una nicchia di spettatori va risolto. Uno dei modi è di incontrarli. Per esempio io tengo delle lezioni in Università. Anche se riesco a interessare solamente pochi studenti, è già una conquista. Il problema alla base, però, è culturale.
La comunicazione di massa propone cose banali e ci si abitua; e se a questo si aggiunge la spinta culturale verso l'infantilismo, troviamo la condizione indispensabile alla quale siamo sempre più indirizzati per essere dei buoni "consumatori". Non trascuriamo anche l'atteggiamento mentale dello spettatore medio che ha la tendenza a voler capire tutto. Non si deve capire proprio niente. Se un lavoro riesce ad aprire qualche finestra dell’anima, allora funziona. Io all’estero ho visto bambini assistere a spettacoli che vengono considerati solo qui “di nicchia”. Allora se si abitua la persona a "mangiare" un po’ di tutto sin da piccoli, si è creato uno spettatore. Crescendo, poi, amerà di più il teatro, o la pittura, o la danza, questo non è importante, ma avrà una sensibilità artistica. La cultura deve essere un desiderio, ma ha bisogno di essere allenato. Perché non inserire il teatro come materia curriculare sin dalle elementari? In fondo il teatro è letteratura.

Una curiosità: perché avete scelto il nome Danae per il Festival?
Danae è una divinità legata al culto della Luna, le cui sacerdotesse avevano il compito di fornire acqua al paese attraverso riti magici, dunque simboli che rimandano al Femminile e richiamando il Femminile, avesse in sé l’accoglienza, la creatività. Quest'ultima intesa come capacità di creare nonostante le condizioni avverse, soprattutto in un paese difficile per l’arte, come l’Italia. L’accoglienza invece rivolta all’artista, intesa in senso globale, compresa un’attenzione particolare alle piccole cose. Nonostante le molte difficoltà economiche, poiché abbiamo deciso di non abbracciare alcuna "chiesa", con ciò che abbiamo, cerchiamo di mettere gli artisti a proprio agio. In Italia sono considerati dei parassiti o al contrario, la cultura viene vista come una cosa elitaria, e gli artisti sono considerati come “quelli che fanno la bella vita” o peggio fanno un lavoro che piace loro, come fosse un delitto cercare la felicità anche nel proprio mestiere.
Io stessa da artista so quanto sia difficile il lavoro quando hai repliche una dopo l’altra. Ma se vengo accolta bene, il mio lavoro acquista una dignità che troppo spesso viene tolta. È importante.

Argomento finale, spinoso: teatro e sovvenzioni pubbliche 
Argomento spinoso, appunto. Sono poche, pochissime. Per quel che ci riguarda cerchiamo di dare spazio a compagnie poco visibili. A questo proposito abbiamo istituito il progetto di residenza Ares, sostenendo, dal 2009, compagnie emergenti. È un’anteprima quella dei milanesi Effetto Larsen, che portano allo Spazio K Innerscapes e il loro lavoro verrà presentato all’interno dello stesso festival. Più di così per ora non riusciamo a fare. Ma chissà, qualsiasi idea e aiuto sono benvenuti!

Claudia Marcantonio
Zona 3 Milano


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