Alle
moltitudini di migranti che, dopo aver attraversato deserti e mari e
avere guardato in faccia la morte dei propri compagni, giungono qui dove
siamo noi che non smettiamo più di guardarli, si schiude finalmente il
paradiso a lungo sognato, ossia l’Europa, l’Occidente. Ma ogni paradiso è
preceduto da un limbo da attraversare e con il quale misurarsi, giorno
dopo giorno, come in un rituale quotidiano di cui non sono ancora chiare
modalità e confini. Un limbo fatto di case di ringhiera e ballatoi, di
alloggi in anonimi condomini, che un tempo furono di altri emigranti, ma
anche di tempi morti, pause di riflessione, gesti normali, ripetitivi
come guardare la televisione, mangiare o leggere dallo schermo di un
computer. Accanto a questi troviamo altre figure di migranti più
integrati, forse, ma anch’essi in attesa che qualcosa succeda e cambi la
loro esistenza. Noi, i Neri mostra l’immigrazione da un’angolazione singolare,
ossia non attraverso le immagini degli sbarchi, dei luoghi di
detenzione temporanea, tanto care all’immaginario giornalistico
televisivo, ma cogliendo le vite dei migranti in una zona
grigia, una sorta di limbo sospeso tra la tragedia dell’arrivo e
l’illusione e la speranza di una vita nuova. Filo conduttore del film sono le storie di Lamine, senegalese del
Casamance, fuggito dal suo paese per ragioni politiche, novello
scrittore, poeta e attualmente disoccupato, e di Valentine, giovane
cantante e musicista congolese che vive con la madre anziana e sogna di
diventare un grande artista africano, che si alternano alle vite di
giovani profughi africani fuggiti dalla guerra, riuniti in alcuni
appartamenti, in attesa di una nuova vita. Di essi vengono colti i tempi
morti durante le sere: cellulari, televisione, brevi conversazioni,
andirivieni per strada e molta solitudine. Ma anche la volontà, spesso
illusoria, di conoscere una nuova lingua in un paese nuovo. Oppure di
mettere in scena uno spettacolo di ballo e di canto in cui rappresentare
in senso catartico la propria storia fatta di tragedia e di speranza.
L’azione successivamente si sposta nell’isola di Goree in Senegal,
simbolo dello schiavismo storico, memoria dell’olocausto africano e oggi
luogo di pace, e nella città di St.Louis, da cui ancora oggi, partono
navi cariche di Africani verso l’Europa, in una nuova, più ambigua e
sofisticata forma di schiavismo. E’ un viaggio all’origine del disagio e
dell’idea di emigrazione, di fuga che ha come contrappunto l’attività
di alcune ong che, ad esempio, offrono l’opportunità alle donne africane
di lavori in diversi ambiti. Perché fuggire rischiando la propria vita
se è possibile costruirsene una nuova nella propria terra? Sono, infine, ben riconoscibili tre diversi livelli di percezione della
realtà occidentale attraverso i diversi protagonisti: i ragazzi e le
ragazze africane appena giunte in Italia, Valentino e Lamine, che dopo
pochi anni trascorsi in Italia, nutrono ancora delle speranze di una
vita normale. Alla proiezione di mercoledì 12 luglio alle ore 21.15 presso Cinema Spazio Oberdan Milano, saranno presenti in sala il regista Maurizio Fantoni Minnella, Aram Chantal Mbow, membro fondatore di Janghi Onlus e Doudou Khouma, operatore sociale della Fondazione Casa della Carità di Milano. L’Africa di chi se ne è andato e di chi ne ha fatto ritorno. L’Africa di chi ha naufragato ed è vissuto per ricordarlo. L’Africa di chi non si è mai mosso e di chi ha scelto di rimanere. L’Africa dei pescatori, delle donne, dei bambini la cui energia e vitalità si irradia ovunque fino al mare. L’Africa degli artisti e dei sognatori, ma anche quella dei talibè, i
bambini poveri delle città che imparano il Corano a memoria vivendo di
elemosine per mantenere i loro maestri, i Marabù. L’Africa di chi non si è arreso.
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