La partecipazione in una città multietnica

Quanto è considerato importante il coinvolgimento degli stranieri ai processi partecipativi? E come giudicano i nuovi cittadini milanesi la partecipazione che le istituzioni italiane o locali offrono loro? Pubblichiamo qui un corposo estratto dell'intervista ad Angelo Inzoli, analista e ricercatore sociale, esperto conoscitore dei Paesi del centro Africa.

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donne africane
Una delle maggiori preoccupazioni per chi si occupa di programmi partecipativi è, almeno nelle città contemporanee, la possibilità di avere introno al tavolo i rappresentanti delle comunità dei nuovi cittadini italiani. Le barriere linguistiche e forse quelle culturali rendono sempre difficile agganciare le popolazioni provenienti da altre nazioni. Eppure, il loro contributo spesso potrebbe essere determinante per anticipare possibili conflitti, per impostare nuove gamme di servizi o per attivare forme di integrazione.

Le popolazioni che risiedono a Milano spesso giungono da parti del mondo dove i temi della partecipazione sono probabilmente una pratica misconosciuta, basta pensare ai i tanti che scappano dai regimi totalitari. L’allenamento alla democrazia per molti potrebbe essere un aspetto nuovo del vivere comune. Questo gap potrebbe identificare uno dei motivi della loro scarsa presenza nei programmi partecipativi attivati in città. 
(Da non dimenticare però che molti di questi programmi non riescono ad attivare le forme minime di relazione con queste popolazioni, neanche attraverso semplici gesti quali, ad esempio, una comunicazione multilingue.) 

Da un lato, potremmo quindi ipotizzare una scarsa comprensione del ruolo che potrebbe assumente il cittadino nei processi decisionali. Ma forse è possibile anche pensare che per alcune di queste popolazioni la partecipazione che proponiamo loro non sia all’altezza delle loro aspettative, avendo loro tradizioni in questo campo più nobili delle nostre. L’offerta che noi facciamo loro, cioè, potrebbe essere deficitaria di significati e di reali opportunità di cambiamento rispetto a quanto esperito nei loro Paesi di origine.

Ne parliamo con Angelo Inzoli. analista e ricercatore sociale indipendente specialista in Scienze delle popolazioni, ambiente e sviluppo dell'area Africana. 

Tu hai avuto una interessante esperienza nella regione dei Grandi Laghi in Africa centrale, dove sei entrato in contatto con alcune popolazioni. ci vuoi raccontare?
Verso la fine degli anni 80 la Banca Mondiale ha cominciato a riflettere sul valore della partecipazione come fattore di riuscita e di efficacia nella messa in atto delle politiche di sviluppo nei paesi emergenti. … In un primo momento il compito di promuovere la partecipazione è stato affidato a organizzazioni non governative europee, ma da un certo punto in poi ci si è resi conto che solo delle organizzazioni locali potevano agire da "mediatori" tra le popolazioni e gli organismi internazionali. La gran parte di queste organizzazioni provengono o hanno l’imprimatur delle chiese cristiane locali perché riconosciute come imparziali rispetto alle lotte di potere che attraversano i vari governi. …

Stiamo parlando di una regione che è stata attraversata da alcune delle più grandi atrocità mai compiute...
Sì, la regione comprende Ruanda, Burundi, Congo… Paesi grandi come due volte l'Europa caratterizzati da grande instabilità politica accompagnata da dilagante corruzione; dove le guerre etniche hanno avuto come effetto oltre cinque milioni di morti ignorati dalla opinione pubblica internazionale. …

Come in questo contesto segnato da violenze si è arrivati a parlare di partecipazione?
… Il primo esito di tutte le conflittualità sviluppatesi dalla fine degli anni ‘80 è sempre stato quello della distruzione dei beni comuni costruiti attraverso la cooperazione internazionale. … Sono stati demoliti pozzi, reti idriche, spazi di socializzazione, anche in Paesi dove il modello di sviluppo sembrava riuscito, come il Rwanda. E ciò perché agli occhi delle popolazioni queste opere di sviluppo incarnavano un intervento imposto dall'alto, “dall'occidente neo-coloniale”, spesso volto a favorire alcuni soggetti forti e posizioni di privilegio. La scelta, ad esempio, di quali terreni valorizzare per insediare strutture pubbliche veniva ricondotta alla proprietà di quel appezzamento e alla scelta di favorire questo o quel possidente, così come la scelta dei collaboratori con quello che questo comportava come salario e acquisizione di benefit.

Quindi cosa avete registrato come scelta adottata per affrontare questo atteggiamento?
Diciamo che dal duemila la Banca Mondiale comprende che i destinatari degli interventi non potevano essere considerati "beneficiari passivi" delle politiche di sviluppo, magari da coinvolgere alla fine del processo, chiedendo qualche indicazione migliorativa. Dovevano essere coinvolti sin dall'inizio del programma di investimento. Per capirci; nel caso di realizzazione di un ospedale si è iniziato a decidere insieme se realizzarlo in un luogo piuttosto che in un altro, perché mettere un servizio e non uno differente, perché attivare dei percorsi di formazione professionale e non altri. 

Non sarà stato facile mettere tutti intorno a un tavolo...
Le difficoltà sono state molte: la frammentazione dei nuclei di assembramento umano, la diffidenza verso il governo, la bassa scolarizzazione... La partecipazione è passata a figure più vicine alla popolazione, capaci di conoscere le dinamiche interne dei villaggi. … Specialmente tra le popolazioni contadine, che percepivano se stessi come svantaggiati, si è manifestata la tendenza a boicottare gli interventi pubblici che non sentivano loro, attraverso, ad esempio, la non frequentazione o una partecipazione passiva e disturbante. 

Nelle nostre realtà, la comunicazione è un tema centrale per una buona partecipazione. Anche lì è così?
In questi Paesi prevale ancora oggi una tradizione orale, è molto importante quello che “si dice in giro” e ancora una volta è fondamentale la fonte da cui proviene la notizia; se, ad esempio, l’invito a partecipare proviene dal sindaco considerato corrotto le persone non si presentano, se viceversa lo chiede il parroco o il leader religioso la situazione si capovolge. La neutralità e la credibilità di chi trasmette la comunicazione è molto, se non tutto. 

Quale è stato l’esito di queste pratiche?
Possiamo dire che dalla fine degli anni novanta in questi paesi nessuna politica pubblica locale finanziata  dalla cooperazione internazionale è stata decisa senza un "percorso di partecipazione", fosse essa riferita alle reti infrastrutturali, alla sanità, alle reti idriche, alle opere per la socialità. Lo stesso linguaggio tecnico ha assunto comunemente termini quali “diagnostica partecipata”, “pianificazione partecipata”. 

Ma le forme della partecipazione si sono fermate alla definizione degli interventi da realizzare nell'ambito delle politiche di sviluppo locale?
No, in generale esiste una forte tradizione di socialità dei beni pubblici attraverso una loro gestione collettiva che porta (questa è una caratteristica della cultura africana) a privilegiare un senso di benessere collettivo basato sulla sensazione di appartenere ad una situazione piuttosto che alla reale efficacia di quella opera.  Quindi è più importate che vi sia un consenso sociale diffuso anche a fronte di una minor efficacia dell’intervento.
…… …

Proviamo a chiudere la riflessione collegandoci alla provocazione iniziale: è possibile che alla luce della complessità e del radicamento di tali esperienze qualcuno dei nuovi cittadini milanesi provenienti dal Centro Africa trovi la partecipazione che le istituzioni milanesi offrono poco interessante e un po’ retorica? E che quindi decida di non partecipare a questi programmi?
Domanda semplice che esige una risposta articolata: partecipare significa implicarsi e diventare in un  certo senso "pesanti". Chi è straniero è leggero e per la sua condizione deve restare leggero e vuole prendere peso lentamente. Cosa intendo dire? Spesso chi è arrivato da lontano ha bisogni da una parte più immediati (casa, lavoro, lingua, mantenimento dei contatti con il proprio paese di origine...) e dall'altra ha davanti delle prospettive temporali e di progetti familiari lunghi. Sono persone che vogliono dare una stabilità e una autonomia alle proprie famiglie, che "usano" del territorio locale in cui sbarcano e non necessariamente vogliono subito mettere radici o farsi manipolare o inquadrare. Se ti sradichi dal tuo Paese e sperimenti una certa libertà di movimento e di autodeterminazione ci pensi prima di radicarti in un'altra parte. Tuttavia molti di loro sono sensibili all'offerta di partecipazione perché non vogliono essere stranieri per sempre nel luogo in cui stanno abitando e in cui cercano di dare un futuro ai loro figli.

Bisogna però anche fare un'altra considerazione che vale tanto per gli stranieri che per gli indigeni di un contesto sociale. Molte persone non amano progetti lunghi e complessi. Nella mente della gente semplice questi grandi progetti sono occasioni che favoriscono solo i potenti. Ecco perché i metodi partecipativi più riusciti sono quelli che hanno degli obiettivi circoscritti e verificabili nel tempo e nello spazio. Sono spesso quelli legati alla promozione di forme di mutuo aiuto, di solidarietà familiare, di vicinanza abitativa, di contrasto di minacce sociale e ambientali. Quando il progetto è più complesso la soglia di partecipazione si alza, si cominciano ad esigere competenze e posizioni che molti italiani (vecchi e nuovi) non hanno. Io credo che se vogliamo coinvolgere dobbiamo cominciare a farlo su progetti specifici misurabili  e quotidiani. 

Da ultimo direi che dobbiamo ricordarci che domandare "partecipazione" ad uno straniero è in sé un atto politico gravido di conseguenze perché significa essere disposti a dargli parola, potere. Non è proprio quello che uno estraneo a un contesto risente subito quando arriva in quel tessuto per la prima volta. Anzi spesso egli ha l'impressione di dover sgomitare e lottare per imporsi, per farsi rispettare o semplicemente per farsi "vedere". Almeno in certi contesti. 
Tuttavia bisogna insistere su questa strada: potremmo da qui fare scoperte interessanti, spiazzanti rispetto alla nostra pretesa egemonia culturale. 

Infine una tua considerazione; durante le primarie del centrosinistra alcuni si sono scandalizzati dalla partecipazione al voto di alcuni, pochi, stranieri.  Lasciando da parte le stupide immagini propagandate dai giornali del centro destra, tu cosa ne pensi.
Io sono stato presidente di un seggio e devo dire che i pochi, purtroppo, nuovi milanesi che sono venuti a votare erano molto informati di cosa stavano facendo e solo in un caso ho visto una giovane portare al seggio i genitori. Ma chi di noi non ha attivato forme di allerta del nucleo familiare per far votare questo o quel candidato? Naturalmente cosa diversa sarebbe se qualcuno comprasse il voto, questo sarebbe un ridurre la partecipazione a voto di scambio. E confonderebbe i nuovi arrivati sul senso che noi diamo al termine partecipazione, allontanandoli da qualsiasi nuovo percorso che si volesse attivare in futuro per decidere su temi specifici.


 

pdf con l'intervista completa
 


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