La Milano partecipata secondo Balducci

Come ha operato finora questa giunta in tema di partecipazione e quale futuro per i processi partecipativi a Milano? L’abbiamo chiesto al Prof. Alessandro Balducci, prorettore del Politecnico e da qualche mese Assessore all’Urbanistica.
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balducci
L’attuale compagine amministrativa annovera al proprio interno una figura che oltre i meriti politici è riconosciuta in ambito accademico e da chi si occupa professionalmente dei temi propri del progetto partecipato, dell’allargamento della sfera decisionale a soggetti con competenze diverse da quelle tecniche, come un vero e proprio riferimento.
L’Assessore Balducci è infatti per molti uno dei “padri nobili” della rinascita del tema del coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali, in particolare quelli in ambito urbanistico. Della sua storia sono note al pubblico di addetti sia le esperienze condotte in prima persona nella gestione di processi partecipativi, dal progetto alla pianificazione, sia il contributo teorico con alcuni testi fondamentali tra i quali “Disegnare il futuro” edito dal Mulino nel 1991.
È quindi con grande interesse, avendo al momento un doppio strumento di lettura della situazione milanese, che poniamo a lui alcune domande sull’attuale fase del governo della città e delle sue connessioni con i processi partecipativi in atto.

Assessore, sei entrato nella Giunta da poco tempo, hai quindi avuto modo di osservare da una certa distanza e per un certo tempo l’attività di coinvolgimento sviluppata dall’amministrazione Pisapia. Che giudizio ne dai?
È indubbio che questa amministrazione ha attivato un percorso che ha segnato una frattura con il passato, evidenziando l’interesse concreto a re immettere nei processi di progetto della città il tema della partecipazione. Il tentativo vero che si è messo in campo è stato quello di inglobare le competenze proprie delle persone che abitano Milano nei processi di decisione che comportano scelte di ridisegno di frammenti, più o meno ampi, della città.
Questa azione ha permesso di sciogliere alcuni nodi, alcuni grumi di conflittualità più o meno latente, rendendo su casi facilmente comprensibili, tali sono le scelte sugli spazi “sotto casa”, gli avvicinamenti fatti tra il progetto prodotto in autonomia dagli uffici e quello che è stato in grado di recepire, pur in misure variabili, le indicazioni e le istanze dei cittadini che hanno preso parte ai percorsi attivati dall’amministrazione comunale.
Devo specificare che ci sono a mio modo di intendere almeno tre ambiti significativi in cui la partecipazione ha trovato un humus per rafforzarsi. Oltre a quello già detto delle procedure attivate dall’ente pubblico voglio riconoscere un merito sia alle attività dal “basso”, quelle in qualche modo classificabili come cittadinanza attiva; le social street, i giardini condivisi, tanto per capirci. Iniziative importanti anche perché diffuse nella città, che hanno trovato a vario modo una sponda nell’amministrazione.
Ma voglio anche classificare nell’ambito della semplificazione alla realizzazione dei processi inclusivi quelli spontaneamente aperti da alcuni grandi operatori immobiliari, che hanno messo al centro della riflessione pubblica importanti parti di città. Azioni che trovano una spinta nell’attuale crisi del mercato edilizio, che invita gli operatori a dare risposte più vicine ai bisogni di possibili acquirenti, il verde di prossimità come il costo degli alloggi, e non solo per ridurre le sempre presenti posizioni critiche agli interventi immobiliari. L’apprezzabilità sociale di questi interventi è infatti diventata
sempre più un elemento di marketing, che può metter a frutto un sistema di relazioni con la comunità locale in grado di inserire con meno traumi le nuove edificazioni all’intero del tessuto consolidato.

Però permangono voci critiche sulla pratica di partecipazione che questa amministrazione ha messo in campo. Per alcuni troppo poco, per altri nulla; alcuni dei sostenitori di questa posizione sembrano non conoscere ciò che è stato fatto.
Un conto è sostenere che non è stato ben comunicato tutto ciò che questa amministrazione ha fatto; sappiamo che l’aspetto comunicativo è una parte importanti dei programmi che puntano a coinvolgere le persone anche solo per tenerle aggiornate sugli avanzamenti del lavoro. Questo deficit comunicativo non riguarda solo il tema in discussione, ma molte delle cose fatte nell’urbanistica anche da altri assessorati. Ciò non toglie che Milano viva un momento favorevole, che ha messo le basi per un suo rafforzamento nel prossimo futuro. Certo bisogna insistere e migliorare dove si identificano delle debolezze.
Sono però convinto che il modello di coinvolgimento attuato dalla Giunta guidata da Pisapia sia positivo e mostri nella realtà la poca appropriatezza di modelli di coinvolgimento basati unicamente su relazioni a distanza; come dice Castelli questi processi virtuali (che offrono importanti spunti di riflessione sulle modalità di coinvolgimento da aggiornare rispetto all’attuale realtà sociale) chiedono poi di trovare dei punti di caduta all’interno della realtà. La complessità del tema e l’impossibilità di ridurlo nella “realtà delle cose” a semplici slogan è dimostrata dal fatto che poche delle amministrazioni governate dai movimenti di recente nascita si possano identificare per la qualità dei processi partecipativi attivati in campo urbanistico.
Noi abbiamo attivato un percorso che ha iniziato a coinvolgere anche gli apparati tecnici del comune, che attraverso le esperienze di progettazione partecipata avviate si sono trovati a dover affrontare una nuova esperienza che però si è dimostrata anche una chiave di lettura in più a loro disposizione, per meglio comprendere la situazione complessa e problematica in cui agiscono tramite i loro atti. L’inserimento di queste prime esperienze partecipative, da prendere come fasi sperimentali di un programma di lunga durata, all’interno delle procedure tecniche amministrative è un elemento poco percepibile dal singolo cittadino, ma uno sforzo necessario per dare spessore al progetto condiviso.
Posso anche testimoniare che, allo stesso tempo, in tutti i componenti dell’amministrazione comunale è cresciuta la consapevolezza del valore di queste pratiche, anche se le contingenze ci obbligano a svolgere le azioni e i progetti in forma separata. Manca il passaggio finale, quello di far diventare queste pratiche uno stile di governo della città, attraverso probabilmente l’assunzione di una struttura di governo chiara in questa direzione.
Poi restano anche le voci fortemente critiche, in aperta opposizione alle scelte dell’amministrazione anche quando veicolate attraverso percorsi di questo tipo.


Io sostengo l’impossibilità di entrare in un percorso di progettazione partecipata con una certa idea, di uscire dallo stesso con la medesima idea, magari cercando nel frattempo di allargare tramite lo stesso percorso la tua sfera di influenza.
Noi, la futura amministrazione, dovrà capitalizzare quelle pratiche che hanno messo e che metteranno soggetti diversi intorno al tavolo per definire un piano comune di azione, ognuno mettendo in campo le proprie attese e i propri diritti. Un po’ come è accaduto di recente in zona 9 con la presentazione del rapporto finale di indirizzo dell’ATU Bovisa; la richiesta emersa di un master plan generale non può eludere nè le attese dei residenti né di coloro che hanno interessi economici su quelle aree. Se ne esce positivamente, se tutti comprendono le ragioni degli altri e, a partire da ciò, si trova un punto di mediazione.                                  
Che alcuni trovino inaccettabile questa pratica ci sta, anche se ciò non trovo abbia a che fare con le idee che oggi circolano relative ai beni comuni, allo spazio pubblico e alla sua riappropriazione.
Guarda,  credo che proprio la riappropriazione dello spazio pubblico, anche quando realizzato con programmi "diretti dall’alto” e sostanzialmente non partecipativi, penso al caso della Darsena e del MUDEC, ha riacceso l’interesse dei milanesi per la cosa pubblica. Questo è un merito di questa amministrazione che penso abbia avuto anche riflessi diretti sulla crescita della voglia di “partecipare”.


Come giudichi nello specifico le attività di coinvolgimento su scelte urbanistiche di peso, direi di strategia per il futuro di Milano, avviate prima del tuo arrivo. Sono stati posti in gioco temi importanti e complessi, la cui soluzione sarà spesso in periodi lunghi; cito ad esempio gli  Scali ferroviari dismessi  o il già ricordato PRU Bovisa.
Mi pare di poter dire, anche in riferimento a ciò che precedentemente ho accennato sul tema del passaggio mancante, che queste occasioni si sono generate a volte per necessità contingenti; non è infatti più pensabile agire trasformazioni così importanti senza il coinvolgimento di chi abita la città.
Detto ciò, mi pare che le diverse occasioni attivate, anche a causa della loro sperimentalità, abbiano un po’ mancato nel mettere dentro il gruppo dei partecipanti anche chi ha saperi tecnici specifici, penso ad esempio ai progettisti delle opere. Ma anche chi rappresenta, legittimamente, gli interessi privati in gioco.
Comunque le esperienze fatte a Milano le ritengo tutte interessanti e credo che sia opportuno che le stesse proseguano dando continuità alla partecipazione attivata, accompagnando i progetti fino alla loro attuazione.
In passato quando ho operato come regista sul campo di programma di progettazione partecipata mi sono trovato in una doppia condizione altrettanto poco auspicabile: quella in cui le indicazioni dei cittadini venivano assunte acriticamente all’interno dello strumento attuativo corrispondente all’opera da realizzare, progetto o piano regolatore, e quella in cui le istanza dei cittadini venivano completamente disattese dallo strumento tecnico. Nel primo caso spesso la tecnicità era in mano a professionisti di basso livello mentre nel secondo caso era più facile trovarsi di fronte al professionista acclamato. Io ho sempre pensato e cercato di mettere i processi partecipativi nella condizione di avere come opportunità quella dell’integrazione e della compresenza dei diversi saperi: quelli del tecnico e quelli del cittadino.  

Pensi che le strutture tecniche interne alla macchina amministrativa siano pronte per affrontare percorsi di questo tipo?
Anche per i tecnici comunali nell’arco di breve tempo si è modificato un mondo; sono passati da dover gestire degli strumenti immobili come il Piano Regolatore a strumenti che richiedono capacità di concertazione, di valutazione delle priorità dei beni comuni da valorizzare all’interno delle trasformazioni, sino a capacità specialistiche come quelle di gestire i programmi di bonifica dei suoli. Tutte cose nuove. Penso che un’azione amministrativa orientata nella direzione di apertura del confronto, nel momento di decidere cosa e come fare degli interventi, porterà anche gli uffici ad attrezzarsi di competenze e sensibilità. La capacità di relazionarsi con una comunità locale è un’operazione complessa che oggi gli uffici possono fare solo attraverso l’affiancamento di esperti.
Detto ciò già oggi il settore urbanistica del comune è impegnato nella definizione di linee guida che stabilizzino le procedure di partecipazione nelle fasi di organizzazione e implementazione dei principali interventi; anche con agevolazioni agli operatori che decidessero di metterle in campo.

Con le premesse fin qui fatte dal tuo punto di vista privilegiato pensi che la “partecipazione” sia a rischio nel momento in cui dovesse esserci un’alternanza netta alle prossime amministrative?
È una buona domanda; se guardo ai Paesi anglosassoni dove vige, anche grazie ai governi conservatori, un metodo di pianificazione che permette anche ad entità minime, ad esempio quattro isolati, di chiedere una pianificazione dedicata e coinvolgente direi di no. Anzi, seppur la partecipazione è probabilmente un tema afferente più ad una cultura della “sinistra”, una certa interpretazione del coinvolgimento potrebbe fare comodo a chi sostiene la ritirata dello stato e l’attivazione di risorse del privato. La richiesta di maggior peso nelle decisioni provengono spesso da chi ha un livello di benessere e culturale elevato, con obiettivi di valorizzare e mantenere un certo status quo; tutte dinamiche che un governo conservatore potrebbe trovare interessanti. Quindi forse più che perdere la possibilità di fare partecipazione ci può essere un rischio di vedere modificate le premesse e gli obiettivi delle stesse.
Sono però quasi sicuro che l’investimento sugli apparati tecnici del comune diminuirebbe, come esito di un ritiro generale da azioni di governo della cosa pubblica finalizzato alla ricerca del bene comune, largamente condiviso e fruibile.


Quindi in una prospettiva di rilancio della partecipazione come strategia di governo cosa proporresti alla prossima amministrazione.
Se parto da quello che osservo tutti i giorni mi pare che la cosa essenziale da fare è “prendersi del tempo”, poter avere come Assessori degli spazi in cui leggere da un po’ più distante quello che succede per definire delle strategie comuni e chiare. L’idea che questa componente di governo diventi una “strategia” amministrativa deve permettere di fare delle valutazioni di ciò che si sta facendo, anche per introdurre dei correttivi all’azione. Adottando uno stile “riflessivo”. Non necessariamente una cosa perché fatta è fatta bene.
In questa direzione voglio anche inserire alcune esperienze recenti, quali il bilancio partecipativo.


Appunto, il bilancio partecipativo. Non tutti lo hanno apprezzato come metodo adottato.

Se assumiamo che anche questa è una pratica utile a rilanciare e a riattivare l’attenzione sulle possibili forme che una amministrazione comunale può adottare per richiamare i cittadini a collaborare, per rompere uno schema completamente delegativo della forma democratica, nella prospettiva che esistono forme differenti di coinvolgimento utili a contesti diversi, allora non lo si può che leggere positivamente. Anche alla luce delle legittime critiche pervenute dalle strutture del decentramento che hanno visto scavalcate le loro priorità di intervento, frutto anch’esse a volte di sollecitazioni provenienti dai cittadini.
La necessità di rendere la partecipazione un’azione strategica significa anche darsi del tempo per coordinare queste proposte e migliorare ove necessario quanto, ribadisco mi pare molto, questa amministrazione ha fatto nel suo primo mandato.


Come giudichi il posizionamento del fare partecipazione nella città di Milano rispetto ad altre realtà comparabili?

Una ricerca di Bobbio che comparava Milano e Torino negli anni passati mostrava come a fronte di una amministrazione della città piemontese attiva e sensibile corrispondeva una società pigra e piegata su se stessa. Mentre a Milano si assisteva al fenomeno opposto: una amministrazione dura ed impenetrabile a fronte di una società milanese che nonostante tutto ha mantenuto una sua, sotterranea, vitalità. Ecco, credo che una amministrazione che prosegua e provi a migliorare quanto fatto, poggiando su questa condizione che offre il tessuto sociale meneghino, non possa che essere definita una “buona situazione”.

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Re: La Milano partecipata secondo Balducci
03/12/2015 GIanluca Bozzia
La rottura culturale con Albertini e Moratti c'è stata nel 2011. Ma dopo 5 anni mi pare che non abbiamo regolamenti amministrativi in grado di governare in modo partecipativo e decidente il decentramento milanese e Milano Metropolitana. I 9 milioni del bilancio partecipativo su un bilancio di oltre 3.000 milioni come quello milanese sono uno zuccherino per dire che un segnale è stato mandato. Ma un segnale serviva nel 2011, mentre nel 2015 sarebbero serviti risultati già conseguiti e strumenti amministrativi implementati, testati e duraturi. A me pare molto scarso, gravemente insufficiente, il risultato da questo punto di vista.


 
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