“Sia lode ora a uomini di fama” : Michele Mozzati

Nella nostra zona ci sono e ci sono state persone importanti che contribuiscono e hanno contribuito al progresso sociale, civile e culturale della nostra città e del nostro Paese. L’occasione di incontrarle è un modo per stare nella storia e nelle stagioni.

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Michele Mozzati è noto al grande pubblico come 50% del binomio Gino&Michele, laddove Gino viene prima per via dell’ordine alfabetico e di quello cronologico. Insieme hanno fatto di ogni, sempre nei limiti del lecito.
Divertendosi hanno divertito generazioni di giovani e di ex giovani, comunque giovanilisti. In parafrasi: divertirne uno per educarne cento. Con ironia e con sagacia hanno sfrondato gli allori e fatto incazzare milioni di formiche.
Michele vive da sempre a Milano, rintuzzando con intelligenza le piccole e le grandi cose di pessimo gusto che la vita ci riserva.

Quali sarebbero, secondo te, le “parole chiave” di una tua biografia?
Innanzi tutto due Maestri: Oreste del Buono e Enzo Jannacci. Poi due “motivatori”: il giornalista Maurizio Chierici, grande inviato del Corriere, che ci invogliò a fare i professionisti della scrittura, e il regista Beppe Recchia, che ci convinse a mollare un lavoro sicuro per la tv. Le altre parole chiave sono Radio Popolare, quella degli anni Settanta, il Teatro dell’Elfo, e Paolo Rossi. La penultima parola chiave è Zelig. Ma mi riferisco soprattutto al locale, quello aperto nel 1986 con un agguerrito gruppetto di amici di piazza Grandi, “per vedere l’effetto che fa”. Dieci anni prima (ultimissima parola chiave) con lo stesso spirito avevamo spinto Smemoranda verso il futuro, con l’amico Nico.
Le altre parole sono molto meno personali e forse un po’ scontate, ma sono le cose in cui credo: coerenza, correttezza, curiosità. Le tre “C”, alle quali andrebbe aggiunta l’ultima C, che è quel modo molto vivace per dire fortuna.

Quando e come ha avuto inizio il sodalizio creativo con Gino Vignali?
Ci siamo conosciuti alla fine degli anni Sessanta, più o meno tra liceali, in odore di maturità. Da lì abbiamo iniziato prima con un gruppo di cabaret (i “celeberrimi” Bachi da sera), e poi, già più grandi, con la nascita delle radio cosiddette libere, a Radio Popolare.

Come fate a scrivere in coppia?
Semplice. Scrivo solo io. Oppure, come ama dire Gino, l’esatto opposto. Gino cita una frase di Groucho Marx che coinvolgeva i fratelli e la adatta a me: “lavoriamo come un sol uomo, cioè lui non fa un cazzo”.

Tra le tante, quale iniziativa o attività ricordi con maggiore soddisfazione?
Beh, a questa domanda credo di avere già risposto. Non ce n’è una sola. Tutte le cose che abbiamo fatto ci hanno divertito e coinvolto. Altrimenti non avrebbero avuto successo. Le cose che divertono devono divertire innanzi tutto chi le fa…

Qual è il tuo rapporto con Milano?
Da milanese. Come dovrebbe essere quello dei milanesi se non fossero “troppo milanesi”. Cioè se non passassero il tempo a piangersi addosso dicendo: “che brutta città, che schifo, come siamo deboli, come siamo grigi, quanta nebbia c’è”. Bisognerebbe dire ai milanesi che la nebbia a Milano non c’è più dagli anni Sessanta. E comunque è un peccato perché la nebbia è bella. Milano va migliorata, ma con l’amore che caratterizzava gli antichi rivoluzionari, quelli che davano la vita per un ideale. Poi essere critici serve, ed è importante in ogni processo di costruzione. Critici e autocritici. Ma il “pessimismo della ragione” non deve e può minare, come spesso succede, “l’ottimismo della volontà”.

Sei, da sempre, schierato a sinistra. Qual è il tuo giudizio sull’operato della Giunta presieduta da Giuliano Pisapia? Qualche consiglio?
Come con l’Inter, da interista. È stata ereditata una città con grandi difficoltà di “gioco”: per cambiare ci vuole molto, a volte più coraggio. E soprattutto bisogna dare segni di cambiamento ai cittadini/tifosi. Sono naturalmente ottimista nella volontà, qualche volta un po’ pessimista nella ragione, ma occorre andare avanti e crederci. A volte osservo, ma lo faccio da molti anni, alcune forme di degrado della nostra convivenza metropolitana, a partire dalle “firme” in bomboletta presente su ogni centimetro della città che prescindono dal tipo di edificio, statua o mezzo pubblico. Mi piacerebbe che si facesse di più per accrescere il senso civile di chi abita Milano, offrendo spazi, responsabilizzando, alzando il livello culturale delle proposte, ai giovani soprattutto. Ma che si affrontassero questi problemi con grande serietà e decisione.

Cosa ti piace del quartiere in cui vivi?
La tranquillità della domenica (in zona universitaria il quartiere un po’ si svuota). La vicinanza al centro senza essere vero centro, la vicinanza alla campagna senza essere ancora campagna. Posso andare a piedi all’Ortica, o al parco Forlanini. A piedi vado ai giardini di piazza Leonardo da Vinci, a quelli di viale Argonne, costruiti nel dopoguerra sulle macerie delle case minime, o, nella parte forse più bella di Milano, ai giardini Montanelli di Porta Venezia. Mi piace perché è un quartiere misto, e racchiude in sé una sintesi di ciò che è Milano. Mi piace infine perché sento come mie, come più milanesi, le zone che stanno al di qua del centro, cioè i quartieri Romana, Vigentina, Vittoria, Venezia, Città Studi. Sono i quartieri storici della piccola borghesia, quelli dei tinelli un po’ bui con i centrini di plastica e l’odore di caffè da cuccuma. Ora i tinelli non esistono più, abbattuti per far posto a open-space più congeniali, con cucinotto a vista. Ma resta quel senso di “normalità” che è sempre stata l’anima della mia città. Questi quartieri sono quelli che la rappresentano, a mio avviso, in maniera più completa.

Progetti per il futuro?
Continuare a fare quello che sto facendo, magari dedicando qualche lavoro, o addirittura qualche sogno, a Milano.

(a cura di Massimo Cecconi)

 


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