“Sia lode ora a uomini di fama” : Michele Mozzati
(Massimo Cecconi)04/02/2014
Divertendosi hanno divertito generazioni di giovani e di ex giovani, comunque giovanilisti. In parafrasi: divertirne uno per educarne cento. Con ironia e con sagacia hanno sfrondato gli allori e fatto incazzare milioni di formiche.
Michele vive da sempre a Milano, rintuzzando con intelligenza le piccole e le grandi cose di pessimo gusto che la vita ci riserva.
Quali sarebbero,
secondo te, le “parole chiave” di una tua biografia?
Innanzi tutto due
Maestri: Oreste del Buono e Enzo Jannacci. Poi due “motivatori”:
il giornalista Maurizio Chierici, grande inviato del Corriere,
che ci invogliò a fare i professionisti della scrittura, e il
regista Beppe Recchia, che ci convinse a mollare un lavoro sicuro per
la tv. Le altre parole chiave sono Radio Popolare, quella degli anni
Settanta, il Teatro dell’Elfo, e Paolo Rossi. La penultima parola
chiave è Zelig. Ma mi riferisco soprattutto al locale, quello aperto
nel 1986 con un agguerrito gruppetto di amici di piazza Grandi, “per
vedere l’effetto che fa”. Dieci anni prima (ultimissima parola
chiave) con lo stesso spirito avevamo spinto Smemoranda verso il
futuro, con l’amico Nico.
Le altre parole sono
molto meno personali e forse un po’ scontate, ma sono le cose in
cui credo: coerenza, correttezza, curiosità. Le tre “C”, alle
quali andrebbe aggiunta l’ultima C, che è quel modo molto vivace
per dire fortuna.
Quando e come ha avuto
inizio il sodalizio creativo con Gino Vignali?
Ci siamo conosciuti alla
fine degli anni Sessanta, più o meno tra liceali, in odore di
maturità. Da lì abbiamo iniziato prima con un gruppo di cabaret (i
“celeberrimi” Bachi da sera), e poi, già più grandi, con la
nascita delle radio cosiddette libere, a Radio Popolare.
Come fate a scrivere
in coppia?
Semplice. Scrivo solo io.
Oppure, come ama dire Gino, l’esatto opposto. Gino cita una frase
di Groucho Marx che coinvolgeva i fratelli e la adatta a me:
“lavoriamo come un sol uomo, cioè lui non fa un cazzo”.
Tra le tante, quale
iniziativa o attività ricordi con maggiore soddisfazione?
Beh, a questa domanda
credo di avere già risposto. Non ce n’è una sola. Tutte le cose
che abbiamo fatto ci hanno divertito e coinvolto. Altrimenti non
avrebbero avuto successo. Le cose che divertono devono divertire
innanzi tutto chi le fa…
Qual è il tuo
rapporto con Milano?
Da milanese. Come
dovrebbe essere quello dei milanesi se non fossero “troppo
milanesi”. Cioè se non passassero il tempo a piangersi addosso
dicendo: “che brutta città, che schifo, come siamo deboli, come
siamo grigi, quanta nebbia c’è”. Bisognerebbe dire ai milanesi
che la nebbia a Milano non c’è più dagli anni Sessanta. E
comunque è un peccato perché la nebbia è bella. Milano va
migliorata, ma con l’amore che caratterizzava gli antichi
rivoluzionari, quelli che davano la vita per un ideale. Poi essere
critici serve, ed è importante in ogni processo di costruzione.
Critici e autocritici. Ma il “pessimismo della ragione” non deve
e può minare, come spesso succede, “l’ottimismo della volontà”.
Sei, da sempre,
schierato a sinistra. Qual è il tuo giudizio sull’operato della
Giunta presieduta da Giuliano Pisapia? Qualche consiglio?
Come con l’Inter, da
interista. È stata ereditata una città con grandi difficoltà di
“gioco”: per cambiare ci vuole molto, a volte più coraggio. E
soprattutto bisogna dare segni di cambiamento ai cittadini/tifosi.
Sono naturalmente ottimista nella volontà, qualche volta un po’
pessimista nella ragione, ma occorre andare avanti e crederci. A
volte osservo, ma lo faccio da molti anni, alcune forme di degrado
della nostra convivenza metropolitana, a partire dalle “firme” in
bomboletta presente su ogni centimetro della città che prescindono
dal tipo di edificio, statua o mezzo pubblico. Mi piacerebbe che si
facesse di più per accrescere il senso civile di chi abita Milano,
offrendo spazi, responsabilizzando, alzando il livello culturale
delle proposte, ai giovani soprattutto. Ma che si affrontassero
questi problemi con grande serietà e decisione.
Cosa ti piace del
quartiere in cui vivi?
La tranquillità della
domenica (in zona universitaria il quartiere un po’ si svuota). La
vicinanza al centro senza essere vero centro, la vicinanza alla
campagna senza essere ancora campagna. Posso andare a piedi
all’Ortica, o al parco Forlanini. A piedi vado ai giardini di
piazza Leonardo da Vinci, a quelli di viale Argonne, costruiti nel
dopoguerra sulle macerie delle case minime, o, nella parte forse più
bella di Milano, ai giardini Montanelli di Porta Venezia. Mi piace
perché è un quartiere misto, e racchiude in sé una sintesi di ciò
che è Milano. Mi piace infine perché sento come mie, come più
milanesi, le zone che stanno al di qua del centro, cioè i quartieri
Romana, Vigentina, Vittoria, Venezia, Città Studi. Sono i quartieri
storici della piccola borghesia, quelli dei tinelli un po’ bui con
i centrini di plastica e l’odore di caffè da cuccuma. Ora i
tinelli non esistono più, abbattuti per far posto a open-space più
congeniali, con cucinotto a vista. Ma resta quel senso di “normalità”
che è sempre stata l’anima della mia città. Questi quartieri sono
quelli che la rappresentano, a mio avviso, in maniera più completa.
Progetti per il
futuro?
Continuare a fare quello
che sto facendo, magari dedicando qualche lavoro, o addirittura
qualche sogno, a Milano.