“Sia lode ora a uomini di fama”: Renato Sarti

Nella nostra zona ci sono e ci sono state persone importanti che contribuiscono e hanno contribuito al progresso sociale, civile e culturale della nostra città e del nostro Paese.
L’occasione di conoscerle è un modo per stare nella storia e nelle stagioni.

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Renato Sarti
Incontriamo Renato Sarti, drammaturgo, regista e attore. Una persona che ha fatto della coerenza civile e sociale una modalità di vita. Un operatore culturale a cui Milano, ma non solo, deve molto. Tra le sue opere, che hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, ricordiamo qui “I me ciamava per nome. Risiera di San Sabba”, “Nome di battaglia Lia”, “Mai morti”, “La nave fantasma”, “Muri” tutte opere nel segno dell’impegno e del rispetto della memoria collettiva. Per non dimenticare.

Quando e come hai iniziato a interessarti di teatro?

E’ stato tutto occasionale. La mia vita la distinguo tra prima e dopo l’Istituto d’Arte. Prima ero solo bicicletta e calcio. Con l'Istituto d’arte a Trieste, che è la mia città, mi sono avvicinato al mondo dell’arte, della pittura ma anche del teatro. Dopo la scuola sono andato a Milano per un paio d’anni, abitavo in via Rovello e per combinazione sono andato a vedere un paio di spettacoli al Piccolo Teatro uno dei quali era “L’istruttoria” di Peter Weiss. Poi sono tornato a Trieste dove mi sono fidanzato con una ragazza di Genova che era iscritta alla Scuola Civica d’Arte Drammatica. Innamorato perso, mi sono iscritto anch’io. Anche se ero molto timido, mi piaceva stare sul palco e ho avuto l’occasione di interpretare alcune parti. A dire il vero la prima volta che ho recitato era da ragazzino nelle osterie quando io e mio fratello salivamo su uno sgabello e cantavamo le canzoni di San Remo in cambio di un gettone del calciobalilla. Cantavamo “Volare”, “Romantica”, quella è stata la mia prima esperienza di spettacolo.
La Scuola d’Arte Drammatica l’ho frequentata un anno solo, poi con un’ associazione aprimmo un teatro all’interno dell’Ospedale psichiatrico di Trieste. Basaglia ci diede il teatro gratuitamente a patto che noi facessimo entrare alle prove e agli spettacoli gli utenti del servizio. E’ stata un’esperienza importante. In quegli anni arrivavano in ospedale musicisti famosi, Dario Fo, Gino Paoli, Ornette Coleman, artisti, pittori, era veramente un mondo. Per una città come Trieste che, per certe cose, era ancora un po’ reazionaria, è stata come un’esplosione.
Il contatto con gli utenti è stato fondamentale, con noi c’era Brunetta che era stata lobotomizzata, c’era Norma, un ricordo indelebile che tornerà poi con lo spettacolo “Muri”, interpretato da Giulia Lazzarini.
Dopo di che mi sono accorto che Trieste mi stava un po’ stretta, mi sembrava che non ci fosse confronto, volevo scappare e così sono tornato a Milano dove, con altri tre amici triestini, mi sono iscritto alla Scuola civica d’arte drammatica. Tra gli insegnanti c’era Roberto Leydi da cui ho imparato a conoscere il valore della memoria storica, della politica, della tradizione popolare e orale, l’aspetto civile e morale della società (siamo nel 1974). Questa esperienza mi ha avvicinato subito al cuore della milanesità nel senso più nobile e più alto, ho conosciuto Dario Fo, cantavo le canzoni di Ivan Della Mea, Jannacci, Gaber, i Gufi. Il primo lavoro che ho fatto a Milano è stato “Io clown” con Massimo Monaco al Teatro Uomo. Erano gli anni del Grand Magic Circus di Savary e de “L’Age d’Or” di Ariane Mnouchkine. La scuola mi trasmise questo contatto con un modo di fare arte, mi ha fatto conoscere le tradizioni popolari legate alla storia operaia e contadina. E’ stata anche questa un’esperienza straordinaria. Anche qui però ho frequentato per un solo anno, poi ho iniziato a lavorare al Piccolo Teatro, prima con parti piccolissime ne “La tempesta” e ne “Le case del vedovo”. Ho lavorato con Giulia Lazzarini, Gianni Santuccio, Gigi Pistilli. Stavi in quinta e imparavi tantissimo anche se non volevi. Le prove con Strehler per “La tempesta” sono state un’esperienza meravigliosa, io ero uno di quelli che “smenazzavano indegnamente il velo del mare”, come diceva il Maestro.
Poi sono andato a lavorare all’Elfo. Altra scuola straordinaria, una vera e propria palestra con Gabriele Salvatores, Elio De Capitani, Ferdinando Bruni. Nel 1979 ho partecipato a “Dracula il vampiro”, nel 1981 a “Il sogno di una notte di mezza estate” e nel 1986 a “Comedians” che è stata l’ultima cosa che ho fatto con loro. Ho partecipato anche al film “Kamikazen”, naturalmente.
Il Piccolo Teatro e l’Elfo sono state le mie grandi scuole, anche se al momento non mi ero reso conto della fortuna straordinaria che avevo avuto. Ai tempi ero “un po’ indisciplinato”, non guardavo, non studiavo, ma sentire le parole di Strehler o di Salvatores, il clima che c’era, il giro d’aria… c’erano Paolo Rossi, Bisio, Elio e le storie tese, gli Area, Demetrio Stratos, Moni Ovadia.
Mi piace ricordare che ho lavorato otto anni all’Elfo, sette anni come socio, semplicemente perché un giorno, passando dal teatro per consegnare la promozione di uno spettacolo di un mio amico, ero alla ricerca disperata di un lavoro naturalmente, nell’atrio sento Elio De Capitani dire che Paolo Cosenza, che era un mio compagno di corso alla Paolo Grassi, aveva detto di no. Così mi sono proposto per “Dracula il vampiro” e mi fecero subito un provino. Se fossi passato di lì venti secondi prima o venti secondi dopo non avrei mai sentito quella frase e non avrei fatto quell’esperienza durata otto anni. Il destino e la fortuna contano sempre tanto. Dopo l’Elfo, ho cominciato a scrivere e ho preso la mia strada. Però ci vuole sempre molta fortuna negli incontri, lavorare in teatro con Santuccio , tanto per fare un esempio, ti entra nel sangue anche se non vuoi.


Quali sono state, sino a ora, le tue esperienze più significative in campo artistico?
Il mondo del Piccolo Teatro, dell’Elfo, la scuola con Roberto Leydi, Sandra Mantovani, Ettore Capriolo…aggiungerei un’altra esperienza per me fondamentale. Quando nel 1995 all’interno della Risiera di San Sabba faccio una lettura scenica in occasione del cinquantesimo della Liberazione, mi mettono a disposizione centoventi testimonianze di ex deportati raccolte da Marco Coslovich e Silvia Bon per l’Istituto per la Resistenza di Trieste, una delle raccolte più importanti insieme a quella torinese, tutte importantissime dal punto di vista storico, civile, politico, umano. Però ce n’erano alcune che dopo un po’ annoiavano, altre invece erano potentissime. Gli episodi erano simili tra di loro, ma la grande differenza era data dal modo di raccontare, io capisco se va bene una cosa drammaturgicamente perché colgo la sensazione se al pubblico può interessare o meno. Il mio studio deriva dalle tavole del palco, sto sempre sul palco anche quando scrivo. Queste testimonianze, spesso in dialetto triestino, arrivavano dal dentro e dal basso, avevano una capacità di sintesi straordinaria. Magari grammaticalmente sconclusionate, però con un’emozione viva, diretta, fortissima. Alcune facevano direttamente ricorso a meccanismi teatrali, scambi di persona come in Goldoni, con grande capacità di attrarre l’attenzione. Fondamentale l’uso del tempo presente, in teatro l’uso del passato fa crollare la tensione, i tempi della narrazione sono l’imperfetto e il passato prossimo, il tempo del teatro è il presente.
Questi testimoni dicono:” Mi prendono, mi portano in stazione, la gente dorme…”. Occorre ricordare che un tempo non esisteva la televisione, la gente comunicava ed era fondamentale non solo comunicare ma comunicare bene, anche in osteria. La trasmissione orale era fondamentale e molti di questi testimoni erano abituati ad attrarre l’attenzione sin da piccoli e, in modo inconsapevole, avevano elaborato un modo straordinario di raccontare storie.
C’è una donna che perde il bambino a Ravensbruck, una delle rare testimonianze di parto nel più grande campo di internamento femminile a 80 chilometri a nord di Berlino, perde il figlio ma commenta con queste parole :”Nessuno può capire, nessuno mai capirà, solo quelli che hanno provato, neanche se mi ricoprissero d’oro sarei ripagata per quello che mi hanno fatto”. Di fronte a parole così, noi drammaturghi possiamo solo riconoscere una lezione pura. Possiamo solo imparare.
Il drammaturgo deve fare come fa Bebo Storti che al mattino va al bar e lì coglie le battute migliori.
Il buon drammaturgo deve stare sempre con le antenne tese, in mezzo alla gente. Cogliere i suggerimenti che provengono dalla vita.

Da cosa nasce l’esperienza del Teatro della Cooperativa?
Nasce alla fine del 2000, anche questa storia ha un inizio un po’ occasionale. Io avevo l’aspirazione di fare una mia compagnia ma mi mancavano le risorse necessarie. Succede che io faccia lo spettacolo sulla Risiera di San Sabba a Roma dove incontro il professor Mino Vianello dell’Università La Sapienza, molto colpito dallo spettacolo. Ad una sua domanda, rispondo che mi sono insanguinato le nocche delle mani a furia di bussare alle porte, qualche testo era andato bene con Strehler, Castri, Moriconi fra gli anni ‘80 e gli anni ’90, poi però sempre difficoltà, un po’ di Filarmonica Clown… Vianello conosceva la rivista “Argomenti umani” che aveva sede a Milano, uno dei redattori viveva a Niguarda, lo incontro e la rivista mi pubblica una parte di “Mai morti”. Mi invita alle celebrazioni della Liberazione che a Niguarda si festeggia il 24 aprile, perché il quartiere è stato liberato un giorno prima. Mi chiedono di organizzare una spettacolo ma mancano le risorse necessarie io allora offro a costo zero di proiettare un video sulla Resistenza registrato a Trieste nel 1995 con Strehler, Paolo Rossi e Moni Ovadia.
L’iniziativa, che coinvolgeva alcune donne partigiane come Pina Re, Stellina Vecchio e Onorina Pesce, si tenne nel salone della Cooperativa Edificatrice che aveva sì un palco ma che veniva utilizzato soprattutto per le riunioni condominiali. Da lì è nata l’idea di trasformare quella sala in un vero teatro. Nella prima stagione, abbiamo fatto una decina di spettacoli nei fine settimana. Per mia fortuna, l’Elfo che aveva prodotto “Mai morti” me lo cedette e questo ci ha aiutato a partire con un buon galoppo. Anche in questa caso c’è una buona dose di fortuità, ma io ero destinato a trovare un teatro così. Forse, se mi avessero offerto un altro teatro in Centro, sarei stato più felice, però non avrei mai acquisito una serie di conoscenze, di rapporti in un quartiere molto particolare che ha una sua storia di solidarietà, di compattezza, di cooperazione.

L’articolo 2 dell’atto costitutivo della Cooperativa Edificatrice (che ora si chiama Abitare) parlava nel 1894 dell’importanza della cultura e della formazione dei ragazzi.
Qui ho conosciuto personaggi straordinari come Stellina Vecchio che era a fianco di Gina Bianchi quando è stata uccisa. Il salone della cooperativa era dedicato a Gina Bianchi (“Nome di battaglia Lia”) ma io non sapevo chi fosse. Ho conosciuto Onorina Pesce, le sorelle Resnati e chi ha avuto la fortuna di conoscere questi grandi anziani naviga meno nel vuoto. I ragazzi di oggi sono un po’ persi anche perché mancano questi contatti fondamentali con le persone anziane. Io ho trovato questo terreno e ancora oggi, dopo dodici anni, è un bel matrimonio. Quest’anno, il Teatro della Cooperativa è stato ospite all’Elfo, al Piccolo Teatro, all’Eliseo di Roma.

Che rapporto hai con il quartiere in cui vivi? E con Milano?
Abito a Porta Venezia a
due passi dalla casa di Gillo Dorfles, che ebbi come insegnante di Estetica all’Università di Trieste, anche in questo caso ho frequentato l’Università per un anno solo, io le scuole le frequento solo per un anno poi me ne vado io, prima che mi caccino loro. All’inizio ho abitato in via Filippo de Filippi che era un luogo nascosto dove i ragazzi venivano a bucarsi. Ho visto scene che non vorrei che le mie figlie vedessero mai.
Il rapporto con il quartiere non è mai stato molto intenso a parte la frequentazione dell’Elfo e della Provincia di Milano per via di Spazio Oberdan dove andavo spesso al cinema. Milano ha grandi problemi di traffico e di viabilità, le auto dovrebbero andare a trenta chilometri all’ora, i passaggi pedonali non dovrebbero essere a rischio, è grave che non ci siano piste ciclabili. Occorre favorire il blocco del traffico alla domenica: ho un amico prete che mi scrive da Trieste e la definisce “Necropoli” e io gli rispondo da “Gasopoli”.

Temo che un po’ di berlusconismo ce lo meritiamo, nel senso che nel vivere quotidiano non esiste il senso di appartenenza alla comunità, vale per Porta Venezia ma vale per altre zone della città. Non c’è rispetto per l’altro, non c’è considerazione per la cosa pubblica. A me dà enorme fastidio vedere la sporcizia per terra, le auto parcheggiate sulle strisce, il traffico incontrollato. A Parigi, ad esempio, non hanno distrutto il loro patrimonio architettonico e ambientale, hanno conservato i bistrot e le brasseries. Mi piacerebbe che questo quartiere fosse più vivibile. Bisognerebbe non privare i bambini del senso di libertà.

Di’ qualcosa di sinistra….
Abbiamo in corso presso il teatro una bellissima mostra sui pittori dell’Unione Sovietica dedicata ai trattoristi, al mondo del lavoro. Si coglie l’intento propagandistico certo, c’è però un’idea di sentirsi parte di una comunità, di voglia di affrontare il futuro, l’ideale di stare tutti insieme. L’idea di identificarsi con qualcosa che sta nascendo, c’è felicità sui volti delle persone. Basaglia diceva:” La libertà degli altri estende la mia all’infinito”. Questo vale anche per la gioia, che se è solo mia, che se non è legata a quella degli altri non vale molto.

(a cura di Massimo Cecconi)


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