Poesia dietro le sbarre
Riceviamo e pubblichiamo un testo di Francesco Casella, che è stato per lungo tempo docente di lettere al Liceo Virgilio e ora è attivo nella Casa di reclusione di Opera.
(Francesco Casella)23/05/2025

Mi è stato chiesto dall’amico Giovanni Bonoldi un contributo a questo foglio on-line.
È stata la poesia a farci incontrare, anni fa. In qualità di docente di Lettere io mi occupavo dello storico Concorso di poesia al Liceo “Virgilio” di Piazza Ascoli. Giovanni, da sempre interessato agli eventi poetici sul nostro territorio, dedicava una particolare attenzione a quanto si muoveva nei Licei della zona.
Da qualche anno è però mutato lo spazio del mio operare: non più le aule del Virgilio, ma gli angusti spazi di un carcere.
Sono infatti ormai cinque anni che, in qualità di docente volontario, incontro regolarmente un gruppo di detenuti di Alta Sicurezza all’interno della Casa di Reclusione di Opera.
Il mondo carcerario è un universo a sé, posto - anche geograficamente - ai margini della metropoli, separato da alti muri, cancelli, sbarre, presidiato dagli agenti della Polizia Penitenziaria, controllato dalle telecamere.
Per accedervi, devi essere autorizzato, consegnare un documento e il cellulare in guardiania, sottoporti ai controlli di sicurezza.
Tutte precauzioni ben comprensibili, naturalmente, ma che connotano lo spazio in modo un po’ sinistro, fin da quando superi la sbarra del parcheggio esterno.
Era il 2021, settimo centenario della morte di Dante e mi era stato chiesto di introdurre il poema e in particolare, l’Inferno a un gruppo di detenuti ristretti nel circuito di Alta Sicurezza.
Il gruppo era composto da una dozzina circa di uomini ormai maturi, condannati a lunghe pene, il più delle volte all’ergastolo – definito dalla agghiacciante definizione FINE PENA MAI - in quanto riconosciuti responsabili di reati di mafia, camorra o ‘ndrangheta. Quasi tutti avevano nel loro passato carcerario trascorso lunghi anni al 41 bis, il carcere duro, riservato appunto agli affiliati di associazioni criminali di stampo mafioso, in regime di rigido isolamento, con conseguenze talvolta anche pesanti sull’equilibrio psichico di chi vi è sottoposto. L’unico modo che molti di loro avevano trovato per salvarsi era stato quello di leggere, o anche di rimettersi seriamente a studiare.
Per parecchi fu quella la prima vera occasione per scoprire l’importanza dello studio, la ricchezza della cultura, l’esperienza liberatoria della lettura.
Erano gli anni del Covid: alle restrizioni del carcere si andavano ad aggiungere quelle legate alla pandemia: distanziamento, mascherine, schermi di plexiglass, controlli sanitari frequenti.
Insomma, un insieme di prescrizioni che non facilitavano la comunicazione.
Ricordo vividamente il primo incontro con il gruppo dei ristretti in una auletta angusta, fredda, umida, al piano terreno, illuminata da due finestrelle in alto con le sbarre, che sarebbe diventata il cenacolo dei nostri incontri settimanali.
Ricordo il mio sentirmi inadeguato, il timore di non trovare il registro giusto per avvicinarli al testo dantesco in tutta la sua complessità, per aiutarli a comprendere un’opera concepita e scritta sette secoli fa.
La sottile lastra di ghiaccio si frantumò ben presto. Fui tempestato di domande, mi resi conto di avere di fronte a me interlocutori adulti, intelligenti, scafati, curiosi e davvero motivati a intraprendere il viaggio all’interno delle parole antiche, alla scoperta di personaggi straordinari e delle loro personali tragedie.
Del resto, non è forse il carcere la “città dolente” per eccellenza, i “fine pena mai” non rischiano forse di sentirsi, o di essere percepiti, come “perduta gente”?
L’espressionismo linguistico di Dante aveva il potere di riaprire ferite, o di lenirle, di toccare le corde umane profonde di ciascuno.
Passai l’esame.
Lo seppi dopo il secondo o il terzo incontro, quando un esponente abbastanza in vista della criminalità organizzata siciliana ebbe a dirmi: “Sa, prof, su in reparto tutti parlano bene di lei.”
E del resto fu un detenuto calabrese a stupirmi quando, giunti al XXVI Canto dell’Inferno cominciò a recitare a memoria “Lo maggior corno de la fiamma antica…”
Insomma, la scommessa pareva vinta. Davvero, la ostica lingua del Ghibellin fuggiasco aveva fatto breccia anche tra i miei interlocutori e arrivava a emozionarli nel profondo.
“Parole che sprigionano” è il titolo di una iniziativa che da anni si svolge a Opera e coglie bene il senso che possono avere questi incontri con le parole, con i libri, con la poesia.
Sono in tanti ad avermi confessato che la loro infanzia e adolescenza era stata contrassegnata da esperienze scolastiche fallimentari. Le bocciature, gli abbandoni precoci, la coscienza di essere stati sbattuti dentro in condizioni talora di semianalfabetismo avevano acceso in alcuni il desiderio di sapere, di conoscere, di leggere, di riscattarsi attraverso lo studio. I libri per evadere oltre quelle sbarre oscurate dal plexiglass, da quelle mura altissime e grigie che rinserrano anche i monotoni passi in cerchio nelle ore d’aria.
Lì, in quel “duro carcere” in alcuni è maturata la scoperta del libro, della parola, della cultura che ha contribuito a dare un senso a quella serie inesorabile di giornate, di mesi, di anni, tutti uguali.
C’è chi non regge, chi dà di matto, chi il fine pena se lo infligge sul proprio corpo e nel modo più tragico, ma ci sono anche coloro che nei libri e nello studio appassionato hanno trovato la propria personalissima forma di riscatto.
E in ciascuno di loro il rimpianto: se avessimo avuto la possibilità di scoprire al momento giusto, da ragazzini il valore dei libri e dello studio, anche le nostre vite avrebbero probabilmente preso una piega diversa.
Da lì, da quelle tragiche premesse è iniziato il nostro percorso.
E la nostra amicizia.
È stata la poesia a farci incontrare, anni fa. In qualità di docente di Lettere io mi occupavo dello storico Concorso di poesia al Liceo “Virgilio” di Piazza Ascoli. Giovanni, da sempre interessato agli eventi poetici sul nostro territorio, dedicava una particolare attenzione a quanto si muoveva nei Licei della zona.
Da qualche anno è però mutato lo spazio del mio operare: non più le aule del Virgilio, ma gli angusti spazi di un carcere.
Sono infatti ormai cinque anni che, in qualità di docente volontario, incontro regolarmente un gruppo di detenuti di Alta Sicurezza all’interno della Casa di Reclusione di Opera.
Il mondo carcerario è un universo a sé, posto - anche geograficamente - ai margini della metropoli, separato da alti muri, cancelli, sbarre, presidiato dagli agenti della Polizia Penitenziaria, controllato dalle telecamere.
Per accedervi, devi essere autorizzato, consegnare un documento e il cellulare in guardiania, sottoporti ai controlli di sicurezza.
Tutte precauzioni ben comprensibili, naturalmente, ma che connotano lo spazio in modo un po’ sinistro, fin da quando superi la sbarra del parcheggio esterno.
Era il 2021, settimo centenario della morte di Dante e mi era stato chiesto di introdurre il poema e in particolare, l’Inferno a un gruppo di detenuti ristretti nel circuito di Alta Sicurezza.
Il gruppo era composto da una dozzina circa di uomini ormai maturi, condannati a lunghe pene, il più delle volte all’ergastolo – definito dalla agghiacciante definizione FINE PENA MAI - in quanto riconosciuti responsabili di reati di mafia, camorra o ‘ndrangheta. Quasi tutti avevano nel loro passato carcerario trascorso lunghi anni al 41 bis, il carcere duro, riservato appunto agli affiliati di associazioni criminali di stampo mafioso, in regime di rigido isolamento, con conseguenze talvolta anche pesanti sull’equilibrio psichico di chi vi è sottoposto. L’unico modo che molti di loro avevano trovato per salvarsi era stato quello di leggere, o anche di rimettersi seriamente a studiare.
Per parecchi fu quella la prima vera occasione per scoprire l’importanza dello studio, la ricchezza della cultura, l’esperienza liberatoria della lettura.
Erano gli anni del Covid: alle restrizioni del carcere si andavano ad aggiungere quelle legate alla pandemia: distanziamento, mascherine, schermi di plexiglass, controlli sanitari frequenti.
Insomma, un insieme di prescrizioni che non facilitavano la comunicazione.
Ricordo vividamente il primo incontro con il gruppo dei ristretti in una auletta angusta, fredda, umida, al piano terreno, illuminata da due finestrelle in alto con le sbarre, che sarebbe diventata il cenacolo dei nostri incontri settimanali.
Ricordo il mio sentirmi inadeguato, il timore di non trovare il registro giusto per avvicinarli al testo dantesco in tutta la sua complessità, per aiutarli a comprendere un’opera concepita e scritta sette secoli fa.
La sottile lastra di ghiaccio si frantumò ben presto. Fui tempestato di domande, mi resi conto di avere di fronte a me interlocutori adulti, intelligenti, scafati, curiosi e davvero motivati a intraprendere il viaggio all’interno delle parole antiche, alla scoperta di personaggi straordinari e delle loro personali tragedie.
Del resto, non è forse il carcere la “città dolente” per eccellenza, i “fine pena mai” non rischiano forse di sentirsi, o di essere percepiti, come “perduta gente”?
L’espressionismo linguistico di Dante aveva il potere di riaprire ferite, o di lenirle, di toccare le corde umane profonde di ciascuno.
Passai l’esame.
Lo seppi dopo il secondo o il terzo incontro, quando un esponente abbastanza in vista della criminalità organizzata siciliana ebbe a dirmi: “Sa, prof, su in reparto tutti parlano bene di lei.”
E del resto fu un detenuto calabrese a stupirmi quando, giunti al XXVI Canto dell’Inferno cominciò a recitare a memoria “Lo maggior corno de la fiamma antica…”
Insomma, la scommessa pareva vinta. Davvero, la ostica lingua del Ghibellin fuggiasco aveva fatto breccia anche tra i miei interlocutori e arrivava a emozionarli nel profondo.
“Parole che sprigionano” è il titolo di una iniziativa che da anni si svolge a Opera e coglie bene il senso che possono avere questi incontri con le parole, con i libri, con la poesia.
Sono in tanti ad avermi confessato che la loro infanzia e adolescenza era stata contrassegnata da esperienze scolastiche fallimentari. Le bocciature, gli abbandoni precoci, la coscienza di essere stati sbattuti dentro in condizioni talora di semianalfabetismo avevano acceso in alcuni il desiderio di sapere, di conoscere, di leggere, di riscattarsi attraverso lo studio. I libri per evadere oltre quelle sbarre oscurate dal plexiglass, da quelle mura altissime e grigie che rinserrano anche i monotoni passi in cerchio nelle ore d’aria.
Lì, in quel “duro carcere” in alcuni è maturata la scoperta del libro, della parola, della cultura che ha contribuito a dare un senso a quella serie inesorabile di giornate, di mesi, di anni, tutti uguali.
C’è chi non regge, chi dà di matto, chi il fine pena se lo infligge sul proprio corpo e nel modo più tragico, ma ci sono anche coloro che nei libri e nello studio appassionato hanno trovato la propria personalissima forma di riscatto.
E in ciascuno di loro il rimpianto: se avessimo avuto la possibilità di scoprire al momento giusto, da ragazzini il valore dei libri e dello studio, anche le nostre vite avrebbero probabilmente preso una piega diversa.
Da lì, da quelle tragiche premesse è iniziato il nostro percorso.
E la nostra amicizia.
Immagine:" Superfici dell'immaginazione", realizzata da detenuti di Opera coordinati dall'artista Carlo Galli, in collaborazione con la Pinacoteca di Brera.