Miracolo a Lambrate


Il cinema a Milano si è fatto molto meno che a Roma. A Milano la televisione, a Roma il cinema. In verità la storia della nostra città è piena di film, sia come “sfondo”, sia come patria di autori, sia come luogo dominante. Nella zona est dove vivo si collocano due capolavori assoluti del cinema non solo italiano.
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foto 1 miracolo a lambratei

Ci basta una capanna. La guerra è passata da poco. A Milano ovunque si vedono ancora le rovine dei bombardamenti. Nel ‘50 i barboni di De Sica devono volare via, sulle loro scope da strega, sfuggendo ai cattivi capitalisti, che si identificano con lo stato, sono lo stato, hanno le loro forze armate, i loro cellulari (intesi come carrozze-prigione), la loro capacità di persuadere e costringere, anche in catene, i poveri ad ubbidire. E che si può fare allora? La lotta di classe? Non scherziamo! I clochard di De Sica non hanno una fabbrica, un luogo collettivo di lavoro, ma solo una loro baraccopoli, in cui vivono apparentemente felici, anche grazie al loro sanfrancesco, lo zavattinianissimo Totò il buono. E dove hanno costruito la loro bidonville? A Lambrate, nel pratone accosto alla massicciata della ferrovia, in via Valvassori Peroni, grosso modo dove ci sono la biblioteca e il campo sportivo comunale. In alcune inquadrature si intravedono le guglie della costruzione del Politecnico, il cosiddetto Cremlino. (v. foto)

I barboni di de Sica non sanno cos’è il socialismo, lo praticano in modo laico para-cristiano, a loro basta una capanna per vivere e morir, non vogliono che la legge sia giusta per tutti, forse vogliono solo essere lasciati in pace. Sotto sotto sono barboni anticomunisti,lumpen, si diceva anni fa, ma anche per il loro verso sono drasticamente realisti: da quella città si può solo volar via, scappare grazie ai miracoli della colomba bianca. Da notare che la scena dei barboni volanti sulle scope ha ispirato, per esplicita ammissione, Steven Spielberg per la scena di ETche vola contro la luna in bicicletta.

Il miracolo è l’unica soluzione, in quella Milano ostile, dove De Sica, lazial-napoletano, non a caso ambienta la sua favoletta. Solo qui il capitalista con bombetta e sigaro può trovare una sistemazione sicura, solo qui c’è autentica miseria metropolitana mescolata a grandi palazzi aziendali, forze armate private vestite come bobbiesinglesi. Le scenette preziose di Miracolo a Milano sono quelle iniziali: l’orto in cui i cavoli fanno nascere i bambini, i medici ciarlatani alla Pinocchio; lo strepitoso funerale di Lolotta, tra navigli, ladri, carabinieri, pubblicità ambulante; l’entrata e l’uscita di Totò dal portone dei martinitt, eminente esempio di crasi temporale nel racconto del cinema.

Era un film ad alto costo, con effetti speciali che ora fan sorridere, ma allora stupivano, affascinavano. Dal mio punto di vista, continua a essere un modello di collocazione, un punto di vista disassato della città, da cui si può solo volar via: Milano resterà questo gorgo attrattivo, dove si ha successo ma si viene anche facilmente sbranati, sarà città brutta ma in perenne movimento, in perpetua attività, un po’ New York, un po’ Mumbay. Quanti, poi, tentativi di imitazione, quanti miracoli ancora sono avvenuti a Milano! La mia opinione istintiva è che De Sica non ami la città, anzi la disdegni, forse la schifiun pochino, caricandola di tutti i luoghi comuni che la appesantiscono, ma che sono sempre fondati, non fondanti.

Cinque, come le dita della mano. Visconti no, Visconti conosce Milano e la ama di un amore nebbioso ma solido. Il suo Roccoè forse il film più profondamente e interamente dedicato a Milano, in ogni tempo.

A partire dalla Ellis Island meneghina, il grande capannone di ferro, cemento e vetro della Centrale, teatro di altri arrivi, come quello di Totò e Peppino vestiti “da milanesi” e più tardi Renzo Arbore. La famiglia Parondi arriva tra sbuffi di fumo, ombre lunghe, vane attese.

Ho letto molte cose diRocco ed ho cambiato opinione altrettante volte. Forse è vero che risente degli anni, come molti film, che decadono dopo poco e sono letti solo come documento dell’epoca. Ci sono troppi sottintesi, non facilmente intuibili a uno sguardo fresco e nuovo: ad esempio quando Morini (il manager, potente, ricco e corrotto) guarda i fratelli Parondi nudi sotto la doccia, come cavalli da corsa da selezionare (e mi immagino lo sguardo di Luchino sul giovane Alain). E, come ai cavalli, guarda proprio in bocca a Simone/Salvatori, per arruolarlo. Nell’epica di una sceneggiatura in cui hanno riversato riflessioni, pezzi, sfumature vari autori davvero tosti (a parte il Testori da cui si parte e Luchino stesso, ci sono Pratolini, Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile e altri), i cinque fratelli (come le dita di una mano…, dice Rosaria, la madre) sono portatori di destini e di valori diversi, che inducono storie e intrecci complessi. Le due scene madri, lo stupro e l’omicidio di Nadia, censurate a suo tempo, fanno un effetto curioso ai giovani di oggi: gli studenti americani cui faccio un corso sul cinema di Milano spesso ridono, quasi per difendersi dalla semplice forza oscura che emana dalla violenza elementare di Simone, anima ferina e intoccata dalla metropoli se non per esserne corrotto. C’è una teatralità scarna, gestuale, elementare nel modo con cui gli attori si dispongono, in cui tutto viene esplicitato, mostrato, ma non esibito. I ragazzi americani ne vedono lo scarso “realismo”: a me continua a fare impressione, anche se l’ho visto cento volte.

Forse perché da piccolo giravo in bicicletta per una periferia fatta anche di orti poggiati alle ferrovie, con capanni come quello dove Rocco e Nadia andavano a “far l’amore” e dove Simone e la ganga li raggiungono per punire il fratello e laNadia davanti alla tribù. Punirla stuprandola, con una violenza calibrata (Simone solleva come trofeo le mutandine), primitiva, cieca, quasi rituale, condannandola definitivamente al destino da cui sentiva di poter uscire con l’amore per e di Rocco. Già Rocco: contro ogni attesa, il giovane soggiace al richiamo tribale e s’impone a forza la cancellazione dell’amore; altro che vendetta, come i ragazzi americani vorrebbero! Rocco si sacrifica per l’anima dannata del fratello, in nome di un richiamo antico alla famiglia, al clan, al sangue. Inconcepibile per uno screenplayer americano. E un po’ anche per i giovani d’oggi.

E sullo sfondo la Milano del naviglio, del ponte delle sirene al Parco, il palazzo dello sport che stava dentro la Fiera, i bar di periferia (con Mina che canta nei juke-box), i tram, le fontanelle, le case a ringhiera … La prima casa popolare cui vengono messi dal comune, “che non lascia nessuno per strada”, come dice in dialetto un collega di Vincenzo, il più grande dei fratelli, è in via Dalmazio Birago, traversa di via Amadeo, ed è rimasta uguale.


E nel cast vediamo tanti pezzi del cinema italiano e dell’Italia anni cinquanta: Adriana Asti, Paolo Stoppa, Claudia Cardinale, Corrado Pani, Nino Castelnuovo, … Nella musica di Rota – sì, lui, quello di Fellini – troviamo qualcosa di classico, un po’ pesante e calligrafico ma perfetto per quel bianco e nero così poco grigio, così al tratto.E pensare che Renato Salvatori, dopo aver violentato e poi ucciso Annie Girardot nel film, l’ha sposata e c’ha fatto una figlia, Giulia.

E ci fermiamo qui, ma potremmo proseguire verso altre date, altri film.


Nazzareno Mazzini



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