La morte di Ivan Il’ič

Il racconto di Tolstoj è la proposta per il mese di dicembre del ciclo "Racconti d’autore fra Otto e Novecento". ()
Immagine Ivan
“La morte di Ivan Il’ič ” si può definire come la descrizione di un’ ”epopea dello smarrimento”. Perchè un senso di smarrimento pervaderà via via, sempre più angosciosamente, la vita di Ivan Il’ič, smarrimento contro il quale egli strenuamente lotterà, letteralmente fino alla morte, come in un vero e proprio epos. In realtà questa definizione ha in sé un contenuto paradossale perché Ivan Il’ič, durante questo suo smarrimento, prende progressivamente coscienza e consapevolezza della sua vita in modi e a livelli a cui, prima di allora, non era mai giunto, anche se questo non servirà a cambiare il corso degli eventi e a “salvarlo”.

Perché quello che resta il segno distintivo di questo racconto di Tolstoj - pubblicato nel 1886 - è questa costante e progressiva sensazione di perdita di punti di riferimento, Un venir meno di qualsiasi sicurezza che andrà a intaccare la capacità stessa di Ivan Il’ič di darsi una ragione degli accadimenti che lo investiranno lasciandolo sempre più smarrito di fronte ad essi. Fino a giungere, impotente e spoglio, a prendere coscienza che l’unica certezza su cui si può contare, a cui assurdamente ci si può appigliare, è proprio e solo la morte.

Quello che accade a Ivan Il’ič è terribile in quanto non gli sarà data dalla vita nessuna possibilità di riprendersi la sua vita che egli vedrà solo sfuggirgli di mano, pur percependo, ahimè troppo tardi ormai, che la vita, sino ad allora da lui trascorsa, non aveva avuto alcun senso. Ma di mettere a frutto questa presa di coscienza a Ivan Il’ič non è dato. A Ivan Il’ič è dato solo inabissarsi lungo le stazioni del suo smarrimento, chiedendosi, ogni volta, sempre più penosamente, perché tutto questo, quasi che gli toccasse espiare non si sa quale colpa: “Ma io non sono colpevole! - gridò con rabbia. - Perché allora?…Ma per quanto pensasse non trovava risposta”.

Pur con il rischio di cadere nell’abusato, tuttavia non si può non cogliere nella vicenda di Ivan Il’ič una dimensione kafkiana, laddove il teatro dell'assurdo dei continui e innumerevoli consulti medici a cui il povero Ivan Il’ič si sottopone per diagnosticare e curare il misterioso dolore che lo affligge, nel sancire l’impossibilità della verità, lo fa, al tempo stesso, sprofondare in una condizione ostaggio nella quale viene kafkianamente stritolato e avviluppato, lasciandolo vieppiù in balia di se stesso. Ma se questo è vero per ciò che riguarda una sorta di analogia dello schema e dell’andamento narrativo, non lo è certamente per ciò che riguarda il “problema” che, diversamente da Kafka, pone Tolstoj e che si può, in una parola, sintetizzare nella questione dell’autenticità. Perché quello che alla fine della sua via crucis Ivan Il’ič intuisce è che, nella sua vita, quella che è sempre mancata è stata, appunto, l’autenticità. Tutta la sua vita: professionale, sociale, affettiva, matrimoniale è stata improntata alla più assoluta esteriorità e insignificanza, in termini valoriali ed umani. Una vita non cattiva ma vuota, giocata tutta sulle apparenze.
E, non a caso, tutto il “mondo”, compreso quello familiare, a cui Ivan Il’ič appartiene si comporterà con lui in quello stesso modo superficiale e anaffettivo con cui si era sempre comportato anche lui. E, non a caso, l’unico personaggio umanamente “sano” che Tolstoj crea è quello dell’umile ma generoso e oblativamente sincero Gerasim, il servo Gerasim, un estraneo rispetto al “mondo” di Ivan Il’ič e, proprio per questo, ancora autentico e spontaneo. L’unico su cui potrà contare per avere conforto ed assistenza.

Pare perciò di poter dire che Tolstoj solleva qui un’esplicita “questione morale” sulla perdita di senso e di valore che una vita insincera e tutta giocata sulle “rappresentazioni sociali” determina, a fronte della ricchezza e umanità di cui i più poveri e miti sono capaci. Tanto che l’unica parvenza di vita vera, incontaminata e gioiosa Ivan Il’ič. la ravvede, andando a ritroso col pensiero, nella sua infanzia, luogo per antonomasia dell’ancora inalterato e dell’innocenza. E, in questo quadro, anche la medicina e i medici appaiono assolutamente inadeguati rispetto al “male oscuro” di Ivan Il’ič, dimostrandosi impotenti e ottusamente occupati a dirimere contrastanti ipotesi diagnostiche ma del tutto disinteressati al malato Ivan Il’ič come persona e all’ascolto della sua interiorità.
E quindi perché non leggere quel suo “male oscuro“, proprio per la sua inspiegabilità, come la metafora, sottoforma di una progressiva somatizzazione, di un male più profondo di quello che inizialmente era solo un male fisico ma che, più egli prende coscienza di sé, più questo male si trasforma e “lavora” dentro di lui. Perché così come egli non riesce a trovare rimedio al suo male fisico, tanto meno riesce a vedere una qualsiasi via d’uscita alle sue sofferenze interiori, rispetto alle quali è completamente solo con se stesso.

Ciò introduce un altro grande tema che Tolstoj suscita e sviluppa, quello della solitudine sia di fronte alla morte che nella malattia che, della morte, in questo caso, è l’anticamera. Ma sia anche di fronte alla vita e nella vita laddove quando si fanno i conti con se stessi come li fa Ivan Il’ič è inevitabilmente in una solitudine interiore che questo avviene, che diviene dolorosa e penosa allorquando, questa solitudine, come nel suo caso, è anche relazionale ed affettiva. Ma Ivan Il’ič non uscirà da nessuna di queste solitudini: “Ivan Il’ič ormai non si alzava più dal divano…Il viso quasi sempre girato verso il muro, pativa, in solitudine, le solite sofferenze senza tregua e si arrovellava intorno al solito pensiero senza uscita. Cos’è questa cosa? Possibile che sia la morte? E la voce interna rispondeva: si, è lei.”
Ivan Il’ič in realtà non vuole morire, ma più viene “espulso” dal mondo più sente che è solo la morte l’unica libertà di cui è padrone. Ma, in questo modo, la morte per lui diverrà un atto di vitalità non un atto di rassegnazione. Essa non sarà solo liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dall’insofferenza degli altri e dagli altri. Sarà un’ultima, per quanto disperata, affermazione di se stesso. Perché in fondo, in Ivan Il’ič, non è la paura della morte che agisce, ma il desiderio e la voglia di vivere. Egli rifiuta non tanto la morte in sé, ma in quanto gli appare incomprensibile e ingiusta, e nel combattere contro la cessazione dell’esistere egli farà proprio di questa cessazione dell’esistere l’ultima dimostrazione, a se stesso, della sua esistenza, quasi che, proprio in quel momento in cui egli muore, un nuovo Ivan Il’ič stesse nascendo.

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