Maria Gaetana Agnesi

Gaetana non ha mai avuto paura di sfidare regole e convenzioni per difendere le proprie idee. Nella Milano bene di metà ‘700, lei, raffinata matematica, poliglotta e benestante, fece una scelta di vita controcorrente, mettendo la propria energia al servizio degli umili e dei più bisognosi. Calandosi nei panni di una sua amica immaginaria, Antonella Nathanson racconta la storia di Maria Gaetana Agnesi: un colp al cör, direbbero i meneghini doc.

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maria gaetana agnesi
Il concetto di bellezza è un'emozione che ognuno di noi sente o non sente dentro di se. Un grigio che diventa rosa o pulviscolo di stelle, se lo si stringe fra le dita. Ogni volta che mi prende questa sensazione, rivedo la vita bella che ho fatto e che devo a una donna, un’amica, il cui sorriso splende nei medaglioni di bronzo che la ritraggono e che riflettono il sole, appesi all’ingresso di alcune case patrizie milanesi.
Quando mi lascio completamente invadere dalla luce, mi sembra di poter toccare con mano i miei ricordi migliori e ritrovo la dolcezza di una donna grande che, pur godendo di una grande fama, non se ne curò e non ne approfittò come è successo spesso ai più noti studiosi dell'umanità.

Lei, Maria Gaetana Agnesi, è stata mia grande amica per tutta la vita e quando leggerete queste righe, accanto alle mie parole mi auguro che possiate scoprire la sua storia.

Eravamo coetanee, nate nel 1718 a Milano. Il padre di Maria Gaetana era stato tra i primi industriali della seta e, grazie alle sovvenzioni austriache e al matrimonio con la figlia ed erede di un conte feudatario di Montevecchia, aveva accumulato un notevole patrimonio. Pietro Agnesi, rimasto vedovo presto, aveva cinque figlie e due maschi. Delle figlie solo due si maritarono e le altre, tranne Maria Gaetana, si fecero suore. Pietro Agnesi era molto affezionato a Maria Gaetana e le aveva fatto promettere che, finché fosse stato in vita, lei lo avrebbe accompagnato ed accudito.

Da ragazza vivevo abbastanza vicino al palazzo degli Agnesi che era in Via Pantano. I miei genitori erano, come si usava chiamarli allora, erbaiuoli, fruttaioli e lattari. Avevamo una minuscola bottega con adiacente orto in Porta Vittoria, ma spesso ci avventuravamo per le vie del centro con le ceste colme di frutta e con la capretta al seguito in cerca di clienti avventizi, perché a Milano abitavano stabilmente poche persone e per lo più vendevamo i nostri prodotti a gente di passaggio.

Mi piaceva la Via Pantano dove abitava Maria Gaetana, perché era un po’ defilata dal centro e tuttavia dalle sue finestre si vedeva il Duomo.
Spesso, quando mi vedeva con la capretta, scendeva con una brocca pulita per prendere il latte che le mungevo da portare ai suoi fratellini. Così un giorno mi chiese dove avevamo bottega e prese a venire regolarmente a fare la spesa.
Io ero una ragazzotta un po’ distratta e dopo le passeggiate mattutine per le vie del centro, trascorrevo il pomeriggio in bottega mentre i miei genitori curavano l’orto.
Tenevo in ordine le ceste con gli ortaggi e qualche volta ricevevo le clienti che venivano ad acquistarli.
Mi piaceva quella ragazza riccioluta e robusta che sapevo essere la primogenita dell’Agnesi, ma non le avevo mai prestato davvero attenzione fino al giorno in cui la vidi intenta a fissarmi dalla soglia della bottega.

Aveva un bel viso aperto con la fronte alta e una massa di capelli castani e ribelli che tentava spesso di ricacciare sotto le cuffie di velluto con cui ci coprivamo il capo.
Indossava vestiti sobri anche se nella sua condizione ci si sarebbe aspettati un po’ di sfarzo, sembrava voler dare alla sua immagine un aspetto ordinato, ma modesto.
Mentre mi fissava, cercavo disperatamente di ordinare un fila di cavoli che non ne voleva sapere di stare impilata. Facevo e disfacevo, senza risultato e mi innervosivo sentendomi osservata.
Forse nei miei occhi scorse la rinuncia o la rassegnazione di una persona ignorante, così mi si avvicinò e mi chiese se poteva aiutarmi.

Mi descrisse le basi delle figure geometriche e, gentile come l’aria di primavera, mi fece la prima lezione sui principi elementari della geometria. Da allora mi invitò a frequentare tutte le settimane la sua casa dove cominciò a istruirmi sulla matematica ed altre materie.

Con garbo davvero inusuale per una donna della sua classe, mi regalò un paio di scarpe (noi popolane giravamo scalze) e con discrezione s'informava sulla salute dei miei familiari e insisteva per accompagnarmi in giro per Milano nelle mie faccende. A me pareva così timida, tanto da suscitarmi tenerezza.
Raggomitolata nelle sciarpe con cui mi coprivo il viso nelle giornate fredde, nascondevo i miei sorrisi, perché era spesso anche molto ironica. Sarà dipeso dagli anni di fatiche che mi avevano fino ad allora aggredita e ridotta a un esserino caustico e di ghiaccio, ma con lei cambiai carattere.
Così incominciai a vedere luce sul buio e il mio sorriso accanto al suo illuminò di gioia le giornate. Maria Gaetana pareva apprezzare la mia ritrosia, il mio sciogliersi piano, senza eclatanti parole. Lei stessa pareva immersa in un mondo misterioso che mi sarebbe piaciuto scoprire. Un'amica così, per me fu una rivelazione, una vera novità che il mio cuore accolse con muto stupore.

Abitare vicine per noi è stata una vera fortuna. In pochi passi la potevo raggiungere a casa dove si era impegnata ad insegnarmi l'alfabeto e i rudimenti della matematica. A volte passeggiavamo insieme e lungo i viali alberati, lontano dal frastuono del traffico dei carri e dei commerci, arrivavamo fino ai giardini del Castello.
Lì ci sedevamo all’ombra degli ippocastani e lei si serviva della punta del suo ombrellino da passeggio per scrivere sulla ghiaia dei viali, le operazioni matematiche che intendeva spiegarmi.

Mi era stato raccontato che, a nove anni, aveva letto in pubblico, durante una festa, un brano di un filosofo che incoraggiava e sosteneva l’educazione delle fanciulle. Suo padre stesso era un sostenitore della sua educazione, tanto che le aveva affiancato maestri e precettori di altissimo livello e la sua stessa sorella era diventata una musicista molto apprezzata.
Mio padre, invece, a sentire quei racconti si era un po’ stupito e aveva alzato le spalle. Le donne, a suo giudizio, dovevano obbedire agli uomini e non potevano aspirare a nessuna autonomia materiale o spirituale.
La mia era una famiglia modesta, mio padre era una persona semplice e devota che, non avendo generato figli maschi, riponeva tutte le sue speranze nel mio futuro marito.
Era dunque preoccupato di quella amicizia che mi stava sviando dal mio compito primario di futura moglie e madre.
Tuttavia non osò interporsi apertamente per non alienarsi anche la famiglia Agnesi, che era pur sempre sua devota cliente.

I miei vivevano dunque tranquilli nella loro placida speranza e quando improvvisamente mio padre morì, travolto da una carrozza di passaggio, mi accanii per mesi a cercare di esaudire il suo desiderio. Ero stata colta dal rimorso di non aver adempiuto al mio dovere di figlia, ma nonostante avessi ricevuto le attenzioni di qualche bravo giovanotto, mi sentivo allergica all’innamoramento e, alla fine, tornai ad ascoltare le lezioni di Maria Gaetana e alla mia esistenza ancora più pacifica di quella di prima.
Cercai di occuparmi di mia madre con dignitosa premura e desiderai ardentemente seguire la mia amica in quel progetto che andava coltivando da tempo e che mi pareva il sogno più grande che la Madonnina del nostro Duomo ci avesse suggerito.

Quante donne sarebbero state tristi di essere sole! Noi invece eravamo felici di esserlo.
Grazie alla sua forza interiore siamo riuscite a vivere senza precipitare nell’acqua come un gabbiano cieco che sente solo la preda. Accanto a lei anch’io intrapresi una vita difficile e semplice.
Ogni mattina rubavo il tempo per studiare. Tutto intorno era silenzioso tranne quando soffiava il vento. Milano in primavera ha un venticello delizioso già di prima mattina. Il Duomo brillava dalla finestra e il silenzio ispirava la mia preghiera. Ho chiesto. Ho chiesto molte cose in Duomo in quei giorni. Chissà che Dio non ascoltasse.

Maria Gaetana era sinceramente contenta dei miei progressi e mi confidava che, nonostante le avessero offerto niente meno che una cattedra universitaria a Bologna, la sua vera soddisfazione era avere amiche come me e le altre persone umili che avrebbe voluto istruire. Avrebbe voluto ritirarsi in convento per essere più libera di perseguire il suo intento, lontana dagli schiamazzi della città e dai suoi doveri di nobildonna che le pesavano e l’affaticavano.
Suo padre tuttavia le aveva fatto promettere di accudirlo fino alla morte. Amava metterla in mostra nel suo salotto, uno dei più quotati di Milano e ascoltarla dissertare le sue opinioni sull’astrologia, la fisica e la filosofia, orari solari e aurore boreali.

Attorno a sé, invece, lei non riconosceva che voci assetate di conformismo e affermazione, gesti che tradivano il cuore e l’anima. Sempre più spesso mi accompagnava a casa e dopo i nostri incontri si congedava con strette di mano e sorrisi. Riattraversava il giardinetto in mezzo alla piazza guardando per aria senza sentir altro, forse, che la voce interiore dei propri pensieri ingarbugliati. Mi fermavo ad osservarla in attesa di vederla sparire dietro l’angolo.

Mentre la sua fama di scienziata si andava sempre più diffondendo nel mondo, lei sembrava quasi scusarsi di possedere così tanta istruzione e preferiva appartarsi e quasi nascondersi.
Parlava diverse lingue, tanto che fu chiamata la Minerva di via Pantano e “Oracolo sette lingue”, il suo libro di analisi matematica venne tradotto in molti Paesi.
Avevo saputo infatti che aveva il grandissimo pregio di ordinare in modo logico e razionale tutti i risultati che gli altri studiosi d’Europa producevano in quegli anni. Si diceva anche che il commediografo Carlo Goldoni avesse voluto dedicarle dei versi.

Un giorno arrivò la notizia della morte del signor Pietro Agnesi, e la nostra vita cambiò radicalmente.
La vidi in Duomo, al funerale, accanto alla statua di un angelo. Il suo sguardo era vuoto, il suo volto aveva il colore della nebbia. L’angelo di marmo aveva le vesti scompigliate dal vento. Accanto a lui, Maria Gaetana e la sorella, suonavano il clavicembalo. Il suono di quella musica diafana saliva al cielo confondendo le ombre e le luci, proprio come il vento scompiglia i contorni degli oggetti.
Uscii umile dalla cattedrale seguendo i riflessi della luna. Avrei voluto abbracciarla, come quando eravamo ragazze, ma ormai era una donna matura e mi sembrò giusto rispettare il suo dolore e la sua dignità.

Non ho mai avuto modo di dirle quanto le sono riconoscente: la mia istruzione e la mia consapevolezza non sono un successo solo mio, ma forse in quel momento non avrei potuto chiedere altro: che la sua vita fosse d’ora innanzi più dolce della mia e che insieme potessimo salire all’empireo dei sogni per trovarne uno bello, uno facile, per il dovere di luce che abbiamo nei confronti dell’esistenza.
Tuttavia lei stava dalla parte degli audaci, di chi non aveva paura di sfidare regole e convenzioni per difendere le sue idee. Lavorando dietro le quinte avrei potuto solo sostenere il suo impegno. La mia condizione e la mia timidezza mi avrebbero impedito di assumere in prima persona la missione umanitaria che lei si stava prefiggendo.
Per diversi giorni non riuscii ad incontrarla, tanto che cominciai a dubitare non solo della fattibilità dei miei sogni, ma anche della possibilità di rivederla.
Mi rivolsi alle sue sorelle suore per avere notizie, ma neppure loro seppero darmi una risposta precisa. Si diceva che fosse chiusa in casa intenta a svuotare le sale e a spostare mobilia.
Che cosa davvero pensasse di fare non era facile da capire.

Una volta l'intravidi tutta incappucciata e carica di coperte, sparire nell'androne di casa accanto a un vecchino seminudo che conoscevo di vista e che sapevo malato di terribili ulcere.
Tornai al mio silenzio e alla mia vita tutta casa e chiesa, pensando che forse quell'atteggiamento avesse a che fare con i suoi esperimenti da scienziata di cui non voleva farmi partecipe. La pazienza, pensai, è uno sguardo malinconico, un pensiero taciuto, nella catena dei giorni.
Poi improvvisamente, vi fu uno squarcio, un'occasione per la rivelazione. Un mattino vidi a terra, accanto alle scale della chiesa del Suffragio, un ragazzino ferito da una ruota e intorno a lui, un capannello di gente che l'assisteva. Qualcuno propose di portarlo in via Pantano, che là qualcuno l'avrebbe curato. Incuriosita mi offrii di accompagnarlo e quando varcai il portone mi accorsi subito che genere di trasformazione si stesse attuando.

Maria Gaetana aveva adattato la sua casa di via Pantano per sistemarvi una specie di ospedale. Passava ore nella visita ai malati e nella preghiera. Sapevo che i suoi fratelli erano preoccupati e la diffidarono dall’usare quello splendido palazzo per ricoverare i poveracci. Ma lei rispose: «Ora, cessata la volontà di nostro padre, trovo mezzi e modi migliori per servire Dio e giovare al prossimo: a questo voglio e devo appigliarmi».
Appena mi vide, mi abbracciò scusandosi di non avermi ancora coinvolta, ma non lo aveva ritenuto opportuno dato che la mia esistenza non era certo agiata come lo era stata la sua.
Tuttavia le mancavo moltissimo e mi chiese, quasi tra le lacrime, se fossi disposta ad aiutarla di tanto in tanto.
Non le ci volle molto per farmi abbandonare orto e bottega e reclutarmi definitivamente. Convinse anche mia madre a seguirla.

Affondando i piedi scalzi nella ghiaia dell'acciottolato, perlustrammo tutte le catapecchie di Porta Romana per scovare vecchine abbandonate e malati soli che ricoverammo nel palazzo degli Agnesi in via Pantano 4. Ci caricammo dell’assistenza dei malati di mente, riguardo ai quali avvertivamo l’insensibilità dei sani. Decidemmo di dividere i nostri averi con loro e Maria Gaetana vendette tutti i suoi gioielli per proseguire nell’opera. Come lei, anch'io mi ridussi in completa povertà.

Siamo rinate grazie alle voci degli umili che si accalcavano nelle sale del palazzo chiuso a chiave per non subire le incursioni dei fratelli, che credevano Maria Gaetana pazza e dissipatrice.
Siamo rinate tra i pianti e i lamenti dei poveri milanesi che avevamo raccolto nelle case fatiscenti lungo il Naviglio, asserviti agli austriaci che li opprimevano di gabelle e di ricatti. Le loro voci ci sfioravano la pelle e guardandoli negli occhi speravamo di vederli sorridere, perché anche noi volevamo sorridere. Per sostenere le spese, Maria Gaetana, vendette tutti i suoi averi e poi chiese aiuto ai conoscenti, alle autorità e alle opere pie.
Gli inverni si erano già più volte infilati sotto gli usci del palazzo e tra le crepe delle finestre, molti di coloro che occupavano le sale avevano già serrato tra le dita scheletriche gli ultimi tozzi di pane comprati con gli avanzi dei beni di Maria Gaetana. Accalcati gli uni vicini agli altri, ci dividevamo le coperte.
Ci si scaldava alla vista dei piccoli milanesi sani che zufolavano sotto le nostre finestre per tenerci compagnia o ascoltando la lettura delle opere di un giovane di allora, tal Cesare Beccaria, che appassionava i cuori con le sue audaci verità sulla giustizia. Attendevamo poi la sera per poterci appartare e quando tutto era buio e in silenzio, ci rivolgevamo alla Madonnina del Duomo e le confidavamo le nostre paure.

Si era ormai esaurita ogni risorsa e presto non ci sarebbe stato più nulla da condividere. Con gli occhi fissi e l’aria assorta, gli sguardi delle nostre malate erano offuscati da sempre più grande preoccupazione.
La speranza di aiuto sembrava ormai solo una disperata follia quando, inaspettatamente, Maria Gaetana venne eletta priora dell’Istituto delle Salesiane. Qualche mese dopo, un suo amico di vecchia data, un gentiluomo milanese che aveva vissuto tutta la vita ammirando Maria Gaetana e seguendone l'opera, le fece un'ancora più grande sorpresa.

Era un uomo colto e raffinato, assiduo frequentatore dei salotti milanesi e soprattutto viennesi, tuttavia, pur coltivando nel suo cuore nobili ideali, non ne aveva ancora messo in pratica alcuno. L'occasione gli venne offerta proprio da una visita a via Pantano dove constatò con i suoi occhi quanti poveri infelici potevano beneficiare della carità e quanto poco sarebbe potuto bastare per rendere meno penose le loro sofferenze.
Vide vecchi e giovani malati sorridere per un tozzo di pane che veniva offerto loro dalle volontarie che circondavano la padrona di casa. Vide scene di gente incattivita, simile alle bestie, trasformarsi in esseri civili grazie alle sole nostre attenzioni e cure. Desiderò poter condividere quella esperienza di cui Maria Gaetana era diventata esperta.
La solidarietà allora mostrò un cuore grande.

Pochi anni dopo quel signore, il principe Antonio Tolomeo Trivulzi, lasciò una consistente donazione per l’edificazione del Pio Albergo Trivulzio e lei, l’Agnesi, fu incaricata dal Cardinale di dirigerlo. Con quell’incarico potemmo garantirci la sussistenza anche se fummo costrette ad abbandonare il palazzo di via Pantano.

Ormai ottuagenarie, ci trasferimmo a Montevecchia, il paese della Brianza da cui proveniva sua madre. Un paese solo in apparenza povero perché la sua gente era in realtà ricca di tempo e di lavoro. Rimanemmo insieme fino alla morte. Per capire dove eravamo, ci bastavano il cielo il sole e le stelle. La vita ci apparve finalmente più semplice perché il tempo era nostro e potemmo dedicarci alle opere di carità che avevamo intrapreso senza più preoccupazioni.
Qui gli alberi ci parlavano, capivano i nostri sentimenti, coloravano le nostre giornate con le loro stagioni. Finalmente il silenzio divenne il nostro compagno preferito. Ci stava sempre vicino e ci ascoltava ad ogni ora. Nel finale tutto sfuma, qualcosa si perde. Occorre fermare il chiasso del vento. Opporre una solida porta al mestiere di vivere. Lei è ormai dietro alle stelle, come lo sarò io, dietro al significato della notte, nella solitudine, non sola, di un’anima grata alla vita, quella vita di ore vere, ore d'amore, che sapevamo essere nostre, ma anche di tutti quelli che ci hanno amato.

Antonella Nathanson


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