Cibo e identità locale

“Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità. Sei esperienze lombarde a confronto”. Questo il tema della ricerca che sarà presentata lunedì 26 ottobre, a Milano, a Villa Pallavicini. Intervistiamo Sergio De La Pierre, coautore della pubblicazione.
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cibo identita
Nel libro di Michele Corti, Sergio De La Pierre e Stella Agostini,  l’esperienza di sei comunità rurali lombarde propone a tutti noi una visione e una pratica produttiva strategiche e in controtendenza ai processi di globalizzazione e omologazione in atto. Qui sono i “cittadini attivi” che, insieme alle Istituzioni locali, diventano i protagonisti di profondi processi di innovazione sociale e territoriale.   
Una sola spiga di mais spinato, fortunosamente sopravvissuta e scoperta in una cantina, un vigneto risorto grazie all’impegno della proprietaria,  uno stracchino ormai “quasi clandestino” non sono più solo prodotti “tipici”, ma diventano “strumento” di valorizzazione di sistemi agroalimentari locali e di nuovi modelli di rinascita dei luoghi e delle loro comunità. Casi emblematici, ma purtroppo quasi sconosciuti, che si fondano su una progettualità comune e una partecipazione civica crescente. 
Chiediamo a Sergio De La Pierre, sociologo e co-autore della ricerca, come nasce questo libro e che cosa possiamo imparare da queste esperienze.

Nasce tre anni fa da una ricerca commissionata dall’Istituto Eupolis della Regione Lombardia, che si è conclusa con un “Report” abbastanza breve. Poi i tre autori hanno concepito il progetto di un testo molto più ampio e completo, realizzato, dopo un supplemento di ricerca sul campo, da un “editore” molto particolare, che è il Centro Studi Valle Imagna, che ha una produzione straordinaria sulla memoria e la cultura locale, nonché una politica di distribuzione “fuori mercato”.

Oggi è di grande attualità un discorso sul “cibo e identità locale”. Sembra far riferimento a tradizioni, “saperi e sapori” e tutto l’armamentario di una comunicazione un po’ stereotipata sulle “buone cose di una volta”. Ma al di là della retorica, in che senso la coltivazione di un prodotto è così intimamente connessa alla costruzione, più che alla riscoperta, di un’ “identità locale”.
Un dato stupefacente di questa ricerca è che in nessuna delle sei situazioni studiate (Corna Imagna col suo stracchino all’antica, Mezzago col suo asparago rosa, Gandino col suo mais spinato, la Val Gerola col suo Bitto, Teglio col suo grano saraceno e Brescia col suo vigneto Capretti, il più grande vigneto urbano d’Europa), solo 15 anni fa non esisteva nulla di tutto ciò che abbiamo scoperto. La decisione di ri-valorizzare un antico prodotto agroalimentare (a volte quasi scomparso) è diventata il volano della rinascita locale, sul piano sociale, culturale, economico, della memoria storica e dello sviluppo territoriale. L’Italia è certamente piena di feste e sagre sui “saperi e sapori” di una volta, ma queste nostre esperienze neo-comunitarie danno l’impressione di una possibile rinascita di più lungo periodo, di una tenuta sociale, di una valenza strategica proprio di fronte alle crisi indotte dalla globalizzazione.

In tempo di globalizzazione, con un’ Expo che ci parla di nutrire un pianeta sempre più affollato in cui mancano le risorse per tutti, come si concilia questa esigenza con la ricerca quasi minuziosa di “eccellenze” locali, che forse soddisfano solo bisogni di nicchia. 
Questo dubbio è centrale per ogni ricerca sulla rinascita locale. In realtà vi sono almeno due elementi che permettono di problematizzare questo dubbio: le realtà che abbiamo studiato sono impegnate tutte attivamente nel costituire reti “dal basso” a scala regionale, nazionale ed anche internazionale (secondo il modello che nel mio intervento ho chiamato del “localismo cosmopolita”); in secondo luogo lo sviluppare prodotti di qualità non rimanda a un’idea di eccellenze di nicchia (e tanto meno di lusso), quando a una migliore qualità della vita di tutti.

Lo scontro dunque è tra modelli aziendali l’uno di tipo “industriale”, l’altro di tipo cooperativo/consortile? E ancora, per la tipicità produttiva italiana spesso costituita da una miriade di piccoli produttori possiamo dire che pare essere più significativo lo sviluppo di associazioni non tanto e non solo settoriali fra produttori, ma “verticali” e di filiera? 
Su questo tema è centrale il contributo di Michele Corti, che sviluppa ampiamente vari livelli di “confronto/scontro” tra i modelli agroindustriali dominanti e un nuovo paradigma cooperativistico e aziendale, che lui chiama SALVI (Sistema agroalimentare locale a valenza identitaria). In ogni caso le “reti” e “filiere” che vanno costituendosi rispondono ai principi di multifunzionalità dell’agricoltura e di multidimensionalità dello sviluppo del territorio (su quest’ultimo punto si diffonde l’intervento di Stella Agostini)

Lo sviluppo di queste esperienze sembra far leva su uno spirito comunitario collettivo che oggi non sembra essere così diffuso. Forse i casi di cui si parla nel libro sono casi particolari di comunità particolarmente coese o anche qui ci sono state ostilità, resistenze o difficoltà?  E in tal caso come si sono superate?
Una comunità particolarmente coesa che ha preceduto questa rinascita di “neoagricoltura” era solo quella di Mezzago. Nelle altre comunità, pur con molte differenze e conflittualità interne, ha agito il potere “contagioso” della rinascita basata sull’agricoltura come nuova speranza di sviluppo locale. Basti solo far l’esempio di Gandino, che dalla scoperta dell’ultima spiga di granoturco sopravvissuta per caso in una cantina si è letteralmente “scatenata” una rinascita che ha coinvolto agricoltori, ristoratori, commercianti, panettieri, attori culturali, scuole, Comuni circostanti (Le Cinque terre della Val Gandino…). Certo, in tutte le situazioni ha contato il ruolo propulsore di qualche soggetto locale particolarmente attivo (anche ma non sempre l’amministrazione locale). Ma quanto alle “resistenze”, particolarmente significativo è il caso dei produttori del bitto della Val Gerola, che alla fine hanno vinto una battaglia ventennale contro le istituzioni – anche europee – che volevano snaturarne i metodi produttivi.

Il caso dello stracchino all’antica di Corna Imagna fa emergere con chiarezza che un ruolo fondamentale è stato svolto anche dall’amministrazione pubblica. Più in generale, quale ruolo possono avere le istituzioni in questo senso? 
Il ruolo delle istituzioni locali (Comune, ma anche le scuole) è ovviamente fondamentale soprattutto per avviare correttamente progetti di sviluppo territoriale partecipato. Ma nei nostri sei casi la presenza dell’istituzione locale è stata decisiva solo per Mezzago, Corna Imagna, e in parte Teglio e Gandino. In realtà la “società civile” deve svolgere un ruolo altrettanto essenziale, e addirittura in alcuni casi (Val Gerola)  è stata l’elemento di stimolo fondamentale anche per il coinvolgimento dell’amministrazione locale.

Dai casi analizzati emergono, però, criticità e limiti dovuti essenzialmente alle normative vigenti. Ce ne vuole parlare?
Su questo tema si diffonde ampiamente Stella Agostini nel suo contributo. L’elenco delle normative “frenanti” (a livello regionale, nazionale ed europeo) dello sviluppo locale sarebbe molto lungo, ma ciò rende ancor più straordinaria la capacità di resilienza di queste esperienze, che in qualche caso hanno anche fatto “arretrare” gli aspetti più negativi delle normative istituzionali.

Torniamo “all’identità locale”. Questo testo ci parla sicuramente di prodotti d’eccellenza, di tutela e non consumo di suolo, di vulnerabilità ed eccellenza di sistemi rurali, ma soprattutto racconta storie vere sulla capacità dell’agricoltura di ricostruire contesti territoriali dando valore ai luoghi e alla qualità delle relazioni. È una sfida affascinante, ma le esperienze di queste piccole comunità potranno mai essere un modello per le sfide tanto più grandi e minacciose di un mondo globalizzato?
Nel libro ci sono ampi capitoli anche sulle contraddizioni e le criticità presenti, situazione per situazione. Queste esperienze non danno certo nessuna “garanzia” che il mondo vada in una direzione opposta a quella dove sta andando. E tuttavia si potrebbe anche ribaltare la domanda: com’è possibile, in un’epoca dominata da dinamiche globali distruttive, da multinazionali anche agroalimentari che fanno il bello e il cattivo tempo, da dinamiche finanziarie e da spazi cibernetici potenti e “invisibili”, che vadano proliferando esperienze di questo genere, che anziché ridursi vanno moltiplicandosi? 
Solo in Lombardia abbiamo scelto questi sei casi su almeno una dozzina di candidati, e in tutta Italia, anche nelle grandi città, e in tutta Europa, e nel Terzo mondo (Gandino ha fatto un gemellaggio con una città produttrice di mais dello Zimbabwe!), sta palesemente nascendo un’alternativa sociale in forte sviluppo, che prefigura una vera e propria “globalizzazione dal basso”.




Lunedì, 26 ottobre 2015, ore 20.30
Villa Pallavicini, Via Meucci 3, Milano
Con la presenza degli autori
Michele Corti, Sergio De La Pierre, Stella Agostini 
dibattito e presentazione del libro a cura di Alberto Magnaghi
Cibo e Identità Locale
Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità
Sei esperienze lombarde a confronto.
500 pagine - in offerta a 20 euro


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