Donne nascoste. ADA, L'INCANTATRICE DEI NUMERI (II cap)

Proseguiamo la storia di Ada Byron Lovelace, con il secondo capitolo dell'"incantatrice di numeri"
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Londra
Una Londra grigia e fredda, con un cielo plumbeo che le faceva da coperta accolse la famiglia Lovelace di ritorno dalle Highlands.
Il viaggio in carrozza era stato faticoso ma ormai da qualche settimana tutta la famiglia aveva ripreso la sua routine tra impegni di studio, lavorativi o domestici. La loro abitazione, una grande casa di mattoncini rossi, era situata vicino al Tamigi, proprio a fianco dei Magazzini e di fronte alle case in cui viveva la gente del porto. Le strade adiacenti erano frequentate da  pescatori, mozzi di vascello e gente  in cerca di manufatti marittimi. Ai lati del marciapiede ogni tanto compariva una bancarella di pesce fresco mentre  qua e là, ovunque, si notavano avanzi, immondizia, bucce di patata, pezzi di latta trascinati  dalle zampe  dei gatti randagi che abitavano in zona. Il quartiere si era sviluppato attorno al nuovo edificio del Royal Exchange, ricostruito dopo l'incendio del 1838 e confinava con la zona del porto che in origine era stata paludosa. Sul retro di molte case c'erano ancora gli orti e, tutt'intorno, una vasta area non bonificata.

La dimora dei Lovelace, in stile vittoriano, da un lato si affacciava sulla piazza del Royal Exchange e dall'altro sulla banchina del vecchio porto.
Era un edificio di tre piani su cui si arrampicavano già lunghi tralci d'edera.
Al primo piano, dopo l'ingresso in marmo color sabbia, si disponevano le stanze di servizio, quelle della servitù e due grandi sale per i ricevimenti che si aprivano, una di fianco all'altra, ai lati del sontuoso ingresso. L'arredamento era essenziale, contrariamente alla tendenza dell'epoca. La prima sala conteneva una biblioteca e sarebbe potuta apparire  fredda se non vi avesse troneggiato, fra i divani,  l'arpa celtica appartenente ad Ada,  che conferiva  all'ambiente un tono di pacata e calda gentilezza.
Al secondo piano, dalle finestre la luce si riversava copiosa . Li si trovavano le stanze dei ragazzi, il luogo più movimentato della casa e anche il più ricco di voci diverse: i secchi scricchiolii della boiserie, i fruscii delle tende pesanti che ondeggiavano sotto il peso delle pieghe e delle arricciature, le grida dei ragazzi e le urla delle governanti nelle ore centrali della giornata.

Ada aveva invece scelto per sé una parte dell'ultimo piano dove era solita lavorare indisturbata. Anche lì c’era un'arpa, in una stanzetta tra la camera da letto e lo studio e Ada ogni tanto la suonava quando sentiva il bisogno di distrarsi. Dalla finestra dello studio seguiva la vita della strada e l'andirivieni della famiglia. Non di rado, capitava che qualche passante levasse lo sguardo affascinato dalle melodie che provenivano da quelle stanze e immaginasse, dietro a quel muro di mattoncini rossi,  un sofisticato musicista.

Dopo il suo ritorno dalla campagna in realtà Ada aveva avuto ben poco tempo per suonare perché aveva lavorato intensamente per portare a termine la traduzione richiestale da Babbage.
La luce del suo studiolo era rimasta accesa fino a tardi per molte sere, ma si era sentita soddisfatta della nota introduttiva che aveva redatto perché era riuscita ad esporre compiutamente la sua opinione sulla macchina di calcolo. Ada si sentiva prostrata, ma era sicura che Babbage avrebbe apprezzato e questo la faceva sentire felice come tutti gli innamorati che hanno un dono da condividere con l'altro.
In particolare, alla fine di settembre, era giunta con sempre maggior consapevolezza, alla conclusione che il calcolo umano è impreciso e che solo una macchina avrebbe potuto calcolare con precisione le tavole logaritmiche. Una macchina di calcolo sarebbe stata capace di portare a termine operazioni complesse usando solo il meccanismo dell’addizione. Non ci sarebbe più stato bisogno del lavoro di molteplici persone, la macchina infatti avrebbe eliminato costi e garantito precisione. La macchina analitica, scrisse, può aggiungere, sottrarre, moltiplicare o dividere con facilità ed esegue ognuna delle quattro operazioni in modo diretto senza l’ausilio delle altre tre. Tesse motivi algebrici ,proprio come il telaio jacquard tesse fiori e foglie.

La grande finestra del suo studiolo si affacciava sul cortile interno dell’edificio e Ada decise di alzarsi e guardar fuori per sottrarsi alle fitte di dolore addominale che da qualche tempo avevano iniziato ad affliggerla. Si sentiva malferma e un po’ fuori della realtà.
Il rumore delle ruote di una carrozza che entrava in cortile, distrasse Ada dai suoi pensieri. Vide sua madre e si preparò all’incontro. Talvolta, ora che anche lei aveva figli, aveva l’impressione che l'abbraccio di una persona cara costituisse una difesa perfetta contro ogni dolore. Da giorni infatti non solo lottava con le teorie algebriche ma anche con i dolori che avevano iniziato a tormentarla dalla nascita della piccola Annabelle, la figlia che portava lo stesso nome di sua madre. Chiudeva gli scuri e si sdraiava a letto senza poter lavorare.

Corse dunque ad accoglierla  all'ingresso contando di trarne un immediato giovamento per il suo stato di malessere.
Annabelle una donna ormai sulla cinquantina, vestiva un abito di velluto grigio scuro molto attillato e di taglio severo. Si era appena tolta il soprabito ed il cappello e sembrava non aver nessuna intenzione di voler ricambiare l'abbraccio in cui Ada pareva volesse cingerla. Le apparve sul volto un'aria scura e corrucciata che alla figlia parve familiare. Le sovvenne infatti quando la madre contariata dalle attenzioni che rivolgeva alle cronache che descrivevano le imprese del padre e strappatale dalle mani l'ennesima poesia che Ada aveva segretamente conservato, l'aveva appallottolata e l'aveva inghiottita come fosse un pezzo di formaggio, davanti ai suoi occhi stupefatti e spaventati. Da allora la paura la raggelava quando notava nella madre quell'espressione severa.
Si diressero verso  la sala e Annabelle si sedette in poltrona. Quella era la stanza più calda di tutto l’appartamento perché vi si trovava la stufa di ferro.

«Da quanto tempo intrattieni corrispondenze con uomini sposati?» esordì con voce flebile, l'anziana donna. Le sopracciglia di Ada s'inarcarono in un'espressione di vera sorpresa.
«Ricordi tuo padre? » continuò
«Certo perché? »
«Aveva il tuo stesso atteggiamento egoista, io mi sono data negli anni tutta questa pena di crescerti ed educarti, non perché mi piacesse passare le ore a seguirti negli studi, ma perché pensavo che avresti fatto qualcosa di bello, di grande, di buono»
«mamma - rispose Ada- credo che noi tutti dovremmo ringraziare questi esimi colleghi con cui tengo questa tanto vituperata corrispondenza; se non altro, per la gentilezza con cui hanno voluto offrirmi un così prezioso aiuto. Da anni ormai ho coltivato delle intuizioni importanti per lo sviluppo della macchina analitica e sai benissimo quanto tempo vi ho dedicato e ora che mi si offre l’opportunità di comunicarle, dovrei tirarmi indietro? »
«Chissà quali sublimi cose hai scritto!” scandì Annabelle alzando la voce, ma notando che Ada si stringeva l’addome tra le braccia, sentì che qualcosa era accaduto alla figlia e che la colpa doveva essere sua, solo sua. Aveva indugiato a lungo prima di decidersi a parlare ad Ada ma il desiderio di proteggere la figlia dalle maldicenze e dalle invidie della gente che lei stessa nel corso della sua vita aveva dovuto continuamente combattere e contrastare l’avevano infine sopraffatta e accecata. Corse a prenderle la mano e le tenne le dita strette tra le sue. Quel gesto improvviso le fece scivolare il fermaglio dei capelli che si sciolsero come un’onda grigia sul vestito scuro. Ada si chinò a raccogliere l'oggetto e con calma glielo porse.
«Cosa suggerisci dunque mamma? » le chiese mentre il pallore del suo viso lasciava intravedere quella sensazione di vuoto allo stomaco che la stava attanagliando.
«Potresti ecco, …” azzardò la madre come illuminata da un’improvvisa intuizione
«Potresti chiedere di siglare i tuoi appunti e i tuoi contributi come Ada Lovelace anziché Ada Byron» – «Tuo marito e la sua famiglia ne sarebbero onorati e non ciò non sarebbe in contrasto con il tuo primario dovere di madre, ritengo...ma cosa ti succede? Cos'hai? Dimmelo, ti senti male?»

Ada stava cercando di reprimere una smorfia di dolore e tutta contratta nel suo divanetto si era piegata su se stessa sempre più pallida.
«Mi sono strapazzata, sono nervosa, stanca e ho bisogno di riposo, ma se questa è l'unica possibilità per salvare i miei anni di studio sugli algoritmi, lo farò di buon grado. I Lovelace sono una famiglia d'avanguardia che si è messa in gioco per aiutarmi. Vada così se deve andare, mio padre non può certo essere qui per difendere il suo buon nome e se anche ci fosse non gli importerebbe molto vero? Non potrò mai concludere la mia ricerca se non sono serena. Un nodo mi stringe lo stomaco e ho paura...ho paura che il dottore non abbia buone notizie per me. »
«che succede?» chiese William che si era affacciato alla porta, colpito nel vedere quel pallore sul viso della moglie.
 «niente caro va tutto bene» rispose lei “Dove vai? »
«Vado al circolo»
«Dove? » fece eco Annabelle che si era alzata dal sofà per andargli incontro, preoccupata di non essere ancora stata notata.
«Oh mia cara, che piacere incontrarti, come stai? Sono diretto al Circolo, vuoi un passaggio? Fuori mi aspetta una carrozza. »
«Grazie si, ne approfitto ben volentieri, così Ada potrà riposare che ne ha molto bisogno.» poi avvicinandosi al mazzo di fiori sulla credenza accanto all' arpa di Ada, continuò:
«Ad Ada piacciono molto i fiori, sei stato molto gentile William»
«No, Annabelle non mando più fiori a mia moglie. L'ultima volta non li ha neppure guardati.»
Così dicendo distese verso di lei la sua mano ed insieme si avviarono all'uscita.

Gettò uno sguardo triste su quei fiori. Glieli aveva mandati Charles per ringraziarla del lavoro che  aveva ultimato tuttavia non aveva fatto neppure un cenno alle teorie da lei esposte nella nota introduttiva, non l'aveva degnata della minima attenzione, tanta fatica le sembrava ora dunque sprecata..
Ebbe l'impressione che qualcosa dentro di lei si stesse spegnendo, o forse la sua vita stessa, così amara, difficile, agra. Si chinò sull'arpa sperando che le sue braccia e le sue dita pizzicando le corde, ridessero forza al suo cuore. La musica anteponeva sempre il sorriso al lamento, invadendola come una consolazione, come un fiotto di luce calma che accarezzava la sua solitudine.

Già aveva archiviato i pensieri e le attese, le false speranze dei suoi calcoli. I numeri le scorrevano nella mente liberi come erano sempre stati. Non giacevano più morti e inebetiti sui fogli. Nel suo immaginario scorrevano a lesinare improvvise carezze sul suo volto insonne e pieno di paure.
Le pareva che non le importasse più dei numeri se non potevano correre leggeri come le note, se non potevano danzare liberi sui fogli. Che gli sarebbe importato a loro di chiamarsi Byron o Lovelace? Dovevano solo trovare spazio e appartenere a se stessi. Dovevano solo avvicinarsi e completarsi in silenzio come le note della musica. Comunicare come infiltrandosi in un anfratto e sciogliere la dolcezza dentro di lei perché erano suoi come i battiti delle sue ciglia, come il burro che scioglieva nel cioccolato dei suoi dolci. Una catena di numeri liberi come una musica che entra nell'anima per trovare il modo più consono di appisolarsi nell'angolo dei pensieri più aguzzi e piano piano farla scivolare nel sonno, dolcemente senza un significato apparente, senza una corona del regno, semplicemente liberi dalle ombre.


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