Milano. Musica. Mondo: Zion 80

L’unione tra la tradizione musicale ebraica e i suoni afrobeat produce una bomba esplosiva di espressività.
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Eseguendo le sofisticate musiche del compositore e polistrumentista John Zorn, i membri di questo complesso capitanato dal chitarrista Jon Madof, si sono lanciati - in una recente performance al Teatro Manzoni di Milano -  in una serie di note e assoli di organo, sassofono e flauto traverso grazie alla bravissima Jessica Laurie, divertendosi e procedendo fra i brani senza sosta e confini di genere.
Brani sincopati e altri pezzi più riflessivi e d’atmosfera, orchestrati da questa band che vanta musicisti di grandissima preparazione e dotati di espressività e inventiva nella complessa e rischiosa arte dell’improvvisazione.

Formata da una serie di artisti ebrei e religiosi, come Greg Wall, sassofonista, il batterista Yuval Lion e Marlon Sobol, che si è rivelato un vero e proprio virtuoso della batteria e delle congas, tambureggiando a mani nude con velocità impressionante e il chitarrista elettrico Yoshie Fruchter oltre che al dottissimo batterista Shanir Blumenkrantz.

Sui palchi, poi, piroette. Questo supergruppo di intera provenienza newyorkese ha all’attivo due album dai quali sgorga a piene mani la cosidetta “Afro-Semitic Experience”, unione delle tradizioni musicali ebraiche di Shlomo Carlebach con i suoni afrobeat del nigeriano Fela Kuti, del cui progetto Egypt ’80 riprende anche il nome.  

Il basso di Shanir Blumenkranz rappresenta il vero carburante di quel motore che è il groove elettrico di Zion 80: raramente Madof lo fa tacere, e si affida ai suoi riffs corposi quanto melodici per costruirvi sopra uno show dove tensione ed espressività mai abbandonano il palco. Il palco appunto. I musicisti schierati a semicerchio si guardano in faccia: sulla sinistra i cinque fiati, al centro il cuore pulsante di batteria e percussioni, sulla destra basso e chitarre. Con le sezioni in continue alternanze di pieni e vuoti per un sound collettivo che mai offusca i singoli dipinti proposti sulla tela delle partiture.

Il gruppo sciorina pezzi di sperimentazione che, in certi frangenti, strizzano l’occhio al geniale Frank Zappa o a Jaco Pastorius, ma sempre evidente è la tessitura a base di jazz, afro music e musica ebraica. In grado sempre di unire mondi diversi, note e contenuti in partenza lontani e di mantenere il rispetto per le tradizioni religiose e popolari.

E via percussioni jambè e congas scatenate da organi psichedelici e sassofoni che richiamano le orchestre della Broadway anni ’50. L’intero progetto è conosciuto come “Afro semitic”, per l’appunto, e intreccia perfettamente le due grandi esperienze di sofferenza, di schiavitù e di persecuzione come quella ebraica e africana che malgrado le differenze rivelano interessanti punti in comune. Quindi poliritmie africane, ortodosse scale ebraiche, avanguardistiche atonalità, ortodossi classicismi, tutto reso magico dal virtuosismo del combo con fraseggi che danno il senso di comunità con una sorta di viaggio temporale che catapulta sonorità antiche nella modernità, in maniera talvolta estatica. A valere quale educazione alle diversità.

Amerigo Sallusti


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