Avvertenze preliminari (seconda parte)

Come e con quale approccio culturale e metodologico avviare un percorso partecipativo.
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Partecipazione
Prima dell’avvio di un progetto partecipativo, è bene richiamare alcuni “principi trasversali” che dovranno essere presenti un po’ in tutte le fasi  del percorso vero e proprio. Ci limiteremo qui ad accennare a quelli che Luigi Bobbio (nel manuale A più voci già più volte citato, pp. 56 sgg.) chiama i principi comuni che devono presiedere a tutte le tecniche utilizzate nelle diverse “fasi” di un progetto partecipativo.

Regole condivise e piccoli gruppi
Fondamentale è che in tutte le fasi del processo i partecipanti siano coinvolti nella costruzione di regole condivise, che vanno da cose più semplici come la approvazione dell’ordine del giorno all’inizio di ogni riunione e quelle più complesse come la definizione concorde delle tappe e dei tempi dell’intero percorso partecipativo. 

Un’altra serie di raccomandazioni concerne il tema della comunicazione interna: evitare i linguaggi specialistici (per far sì che dal percorso non siano scoraggiate le persone meno acculturate), se del caso utilizzare anche strumenti grafici, come delle mappe “bianche” da far disegnare alle persone intervistate (si veda l’es. delle mappe fatte disegnare nel corso della “Camminata di quartiere” su via Padova sul tema del verde, il 12 aprile 2014). 

E, ancora, mantenere un giusto mix di formalità e informalità: la prima è legata al tema delle regole su accennato, la seconda alla necessità di una cura costante delle relazioni tra i partecipanti, e tra loro e i facilitatori e le istituzioni; uno strumento fondamentale di tutto ciò è il preferire le riunioni di piccoli gruppi al modello assembleare: in quest’ultimo si tendono a cristallizzare le posizioni, mentre nelle riunioni di piccoli gruppi (cercare di evitare di superare le 10-15 persone) non solo ci si può conoscere meglio, ma si può giungere più facilmente ad ascoltare davvero le ragioni dell’“avversario”, e anche a modificare le proprie posizioni di partenza.

Temi sociali e temi territoriali
I diversi percorsi e progetti partecipativi si distinguono tra loro, come sappiamo, per la diversità dei temi affrontati (raggruppabili grosso modo in temi “sociali” e “territoriali”), ma anche per le diverse dimensioni e i diversi approcci (culturali e metodologici) su cui viene impostato il percorso. Il tema delle dimensioni può essere declinato nei termini della dimensione spaziale, cioè della scala territoriale investita dal progetto: da una dimensione sovralocale (com’è il caso dei processi di débat public in Francia sulle grandi opere) a una locale (di quartiere, di via, di piccolo centro), sino a una dimensione che investe la sfera privata. 

Confini labili fra la sfera pubblica e quella privata
Infatti molte esperienze partecipative tendono a far ritenere superata una rigida distinzione tra sfera (e spazio) pubblico e privato, proprio a partire dalla considerazione che la “cittadinanza attiva” comporta un coinvolgimento del cittadino a tutto campo: un GAS che organizza uno scambio equo con produttori agricoli di qualità è pubblico o privato? Chi organizza una “festa di cortile” in una casa di ringhiera a Milano svolge una funzione pubblica o privata? Molte opere “autogestite” di ristrutturazione di condomini vengono fatte rientrare (anche giuridicamente in alcuni Paesi europei) in più ampi progetti di “rigenerazione urbana”: il principio del mutuo aiuto in questo senso è fortemente presente ad esempio nell’esperienza dei compagnons bâtisseurs in diversi Paesi europei (su tutta questa tematica si veda Ciaffi, Mela 2012).

Processi complessi possono avere maggiori probabilità di tenuta nel tempo
Ma la questione delle dimensioni della partecipazione ha anche a che fare con quella della maggiore o minore complessità, nel senso specifico della “quantità” dei temi trattati. Un conto è un processo partecipativo per ristrutturare una piazza (“monodimensionale”), e un conto è un processo che tenda alla rinascita complessiva di una comunità (si tratta qui di esperienze che, sul piano della “scala”, si svolgono soprattutto al livello “locale”). È evidente la maggiore complessità di un percorso partecipativo di quest’ultimo genere, ma altrettanto evidente – da una serie di esperienze locali sempre più numerose, come attestato ad es. dall’“Osservatorio” della “Società dei territorialisti” – che le esperienze di “rinascita comunitaria” hanno maggiori probabilità di tenuta nel tempo e di significatività di risultati rispetto alle esperienze di partecipazione “monotematica” (per un esempio di interessantissima rinascita comunitaria “multidimensionale” possiamo riferirci al caso recente di Corna Imagna in provincia di Bergamo).
Tale “tenuta” riguarda ad esempio la maggiore capacità di inclusione dei più diversi soggetti sociali, la maggiore possibilità di soluzione dei conflitti locali, la crescita di un “senso comune” e di capacità diffuse di “autoriflessività” comunitaria. 

I diversi possibili approcci  
La questione degli approcci alla partecipazione è assai ampia e investe le dimensioni del retroterra culturale (del “clima” più o meno favorevole alla partecipazione in sé abbiamo già parlato ad es. in un precedente articolo), del peso rispettivo da dare alla società civile e alle istituzioni (anche di questo abbiamo già parlato), dell’attenzione da porre ai tratti culturali dei diversi soggetti coinvolti (diverso è avviare un processo partecipativo in una città europea rivolto agli autoctoni, o rivolto a una popolazione immigrata, o in una zona del Terzo Mondo…). 

Ma qui vorremmo concentrare l’attenzione su una distinzione tipologica di approcci che è assai problematica, importante sul piano teorico anche per le ricadute concrete: si tratta del dilemma (così lo chiama Luigi Bobbio 2006) tra un approccio di tipo “procedurale” e uno di tipo “sostanziale”. 
Il primo approccio può essere illustrato da una definizione di Carlo Cellamare (2011, p. 158), che certo non è un “proceduralista” puro: “La partecipazione è il fine non è il mezzo per raggiungere uno scopo […] il vero fine è il processo in sé: il protagonismo degli abitanti, la possibilità e la capacità di riappropriarsi del proprio contesto di vita, la produzione collettiva di idee e progetti, il mutuo aiuto, l’apprendimento collettivo, la produzione sociale di pubblico”
La posizione “sostantiva” secondo Bobbio è presente specialmente nella “scuola territorialista”, laddove il suo fondatore Alberto Magnaghi (2006, p. 135) intende la democrazia partecipativa come “un importante antidoto ai modelli imperial-militari della globalizzazione economica […], uno strumento di ‘liberazione’ della vita quotidiana individuale e collettiva dalle sovradeterminazioni e coazioni del mercato, verso l’autodeterminazione degli ‘stili’ di produzione, di scambio, di consumo”.

Partecipazione: fine o mezzo?
Il “dilemma” – che sembrerebbe irresolubile – può essere così rappresentato: definire la “partecipazione” come pura procedura e come “fine in sé” la rende indifferente agli esiti e ai contenuti, tanto che un qualunque percorso partecipativo, se “ben condotto”, resta valido anche se in un quartiere, “democraticamente”, dei cittadini hanno deciso politiche di emarginazione degli immigrati, o soluzioni urbanistiche “in proprio” come la chiusura al traffico di una via senza alcuna attenzione a cosa succederà nelle vie accanto (sindrome NIMBY). 
D’altra parte, un procedimento partecipativo già finalizzato fin dall’inizio ad esiti ben precisi, per quanto “progressisti”, sembra smentire i presupposti stessi della democrazia partecipativa, che concernono proprio il rifiuto di soluzioni predeterminate (da un’amministrazione, da un’associazione, da uno studioso non importa), perché contempla soprattutto la centralità di soluzioni innovative e spesso “inattese”. 
Vedremo come un dilemma di questo genere sia presente, anche se non immediatamente “sovrapponibile”, nel dibattito su “democrazia partecipativa e democrazia deliberativa” (su cui torneremo in un prossimo articolo), ma per intanto vorrei accennare a una possibile problematizzazione di quel “dilemma”, certo irrisolvibile nel termini in cui sopra l’abbiamo posto. 

Metodo aperto e libera ricerca 
Anche partendo da un’impostazione “procedurale”, non si può non vedere la differenza tra una procedura “chiusa” e una “aperta”, cioè tra un puro tecnicismo che si limita a rilevare i desideri e le opzioni di un’“arena” di cittadini concepita piuttosto staticamente, e un metodo che invece parta dalla centralità della relazione “creativa” tra quegli stessi cittadini e soprattutto che declini l’“apertura” anche come flusso comunicativo di nuove tematiche e di nuovi soggetti non compresi nell’“arena” di partenza. Allora ecco che questa apertura di sempre nuovi orizzonti non smentisce affatto la centralità metodologica della ricerca di contenuti e esiti non predeterminati, ma nello stesso tempo aumenta la probabilità (non la certezza) che i contenuti che emergeranno non saranno a loro volta in contraddizione con un altro presupposto della democrazia partecipativa: non solo, dunque, la libertà nella ricerca degli esiti da parte dei cittadini “partecipanti”, ma anche la libera ricerca di tutte le connessioni, spesso “inesplorate”, che possono scaturire dal senso di liberazione, autogoverno, ritrovato senso di “comunità” che non possono non far parte di una filosofia della partecipazione, per quanto “proceduralmente” intesa.




Per saperne di più
L. Bobbio, Dilemmi della democrazia partecipativa, in “Democrazia e Diritto”, n. 4, 2006, pp. 11-26
C. Cellamare, Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci, Roma 2011
D. Ciaffi, A. Mela, La partecipazione. Dimensione, spazi, strumenti, Carocci, Roma 2011
A, Magnaghi, Dalla partecipazione all’autogoverno della comunità locale: verso il federalismo municipale solidale, in “Democrazia e Diritto”, n. 3, 2006, pp. 134-150.

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