Da Di Bella al caso Stamina

Un confronto fra i due casi che, negli ultimi anni, hanno in qualche misura, “sconvolto” il rapporto fra sanità-giustizia-mass media-politica, può forse essere utile, per capire quanta poca strada si sia fatta nel nostro paese e quanta confusione persista fra alcune fondamentali questioni: il diritto alla salute, la libertà di cura e i doveri dei medici.

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caso stamina web
I due casi (Di Bella e Stamina Foundation) hanno evidenti analogie e alcune - anche drammatiche - differenze; entrambi nascono di fatto da campagne mediatiche.
Il primo ebbe inizio nel 1997, nell’ambito della trasmissione Moby Dick su Italia 1, il secondo da parte de Le Iene, sempre su Italia 1.
Tuttavia il metodo è assai diverso; nel primo caso un giornalista solleva il caso Di Bella, con una cultura scientifica, approfondimento giornalistico, valutazione di una pluralità di voci che lascia ampiamente a desiderare (ma che riflette la cultura scientifica e professionale del nostro paese); nel caso Stamina si tratta di una vera e propria attività di promozione e sostegno, che si sviluppa nel corso di molti mesi con circa 20 puntate.

Nel caso Di Bella un medico, sulla cui probità nessuno solleva perplessità, propone un approccio terapeutico privo di evidenze scientifiche e che risulterà, dopo la valutazione della documentazione clinica da lui stesso fornita e la sperimentazione condotta - con una normativa ad hoc approvata e finanziata dal servizio sanitario nazionale, creando così un pericoloso precedente, - totalmente inefficace.
Si tratta, come noto, di pazienti affetti da patologie oncologiche di vario tipo e gravità, per i quali esistono approcci terapeutici con diversi gradi di efficacia e che fanno una scelta di non sottoporsi a tali terapie, ma ad una sperimentazione che non ha presupposti di validità.

Tuttavia ciò che Di Bella propone si tratta di un “cocktail” di prodotti in commercio, con dosaggi diversi (assai bassi in tale cocktail) ed utilizzati talora per altre patologie. In questo caso la questione non era la libertà di cura - che nessuno contestava a Di Bella e ai pazienti - ma l’obbligo del servizio sanitario di farsi carico di un trattamento che non aveva alcuna consistenza scientifica e assistenziale.

Nel caso del “metodo Stamina” un non medico, sconfessato dalla Comunità scientifica internazionale e sotto indagine da parte della procura di Torino “animato dall’intento - si legge nel capo d’accusa - di trarre guadagni da pazienti affetti da patologie senza speranza”, in assenza di protocolli e follow up e non attenendosi all’ordinanza dell’Agenzia per il farmaco (Aifa), promuove la trasfusione di un insieme non definito di cellule staminali mesenchimali, potenzialmente inquinate dal terreno di cultura senza le elementari garanzie non solo di benefici, ma di assenza di effetti avversi.

La sensazione è di essere passati - da Di Bella al caso Stamina - “dalla padella nella brace”, anche per la drammaticità della condizione dei piccoli pazienti, per i quali la scienza allo stato attuale non ha strumenti terapeutici di una qualche sostanziale efficacia.

Tuttavia alcuni Tribunali (Venezia, Pesaro, l’Aquila, etc.) impongono il trattamento; il ministro Balduzzi con proprio decreto (25 marzo 2013 n. 24) stabilisce che i pazienti che hanno iniziato la cura potranno proseguirla, come sperimentazione, per 18 mesi; il Parlamento approva e il Tar del Lazio sospende il Comitato tecnico nominato dal Ministro, perché parte dei componenti aveva espresso pareri sull’approccio scientifico della Stamina Foundation.

Vi sono, alla base di queste vicende, anche alcune problematiche che credo utile evidenziare.

In primo luogo un fraintendimento sul significato di diritto alla salute, e del suo riferimento all’articolo 32 della Costituzione, come qualità per fare ottenere cose - che il soggetto identifica - e non relazioni, che comportano l’accesso a prestazioni assistenziali e terapeutiche (anche indipendentemente dalla propria capacità retributiva e relazionale) governate da regole scientifiche e cliniche.

Il secondo elemento che emerge è l’assoluta sottovalutazione dei costi delle pseudo sperimentazioni e di comportamenti legislativi che aprono il varco a proposte terapeutiche non validate e finanziariamente insostenibili. Ora il rapporto fra diritto alla salute e risorse risulta complesso poiché deve essere interpretato nei termini di bilanciamento fra un diritto del soggetto e quello di altri soggetti potenziali e futuri, a cui le risorse “sottratte” possono essere necessarie.

A tale problematica non è applicabile una gerarchia dei diritti derivata da altri contesti, che pone il diritto individuale prioritario rispetto alla salute pubblica, limitandolo solo in casi ristretti e normativamente identificati (trattamenti sanitari obbligatori). Qui si tratta di altro, e di una sottrazione di risorse per interventi non necessari o potenzialmente dannosi.

Un ulteriore elemento di riflessione riguarda le garanzie di libertà della ricerca, previste dagli articoli 9 e 33 della Costituzione e anche recentemente ribadite dalla Suprema Corte (ad esempio nella illegittima determinazione per legge del numero di embrioni che il medico può produrre), in base a cui la pratica medica si basa sulle conoscenze scientifiche e la legge, o il Decreto Balduzzi, non può dire al medico cosa deve fare. I giudici dovrebbero rispettare tali orientamenti e tali “delimitazioni di campo”.

Dal caso Di Bella sono trascorsi 15 anni; un lasso di tempo in cui non vi sono stati sostanziali progressi nella definizione di regole certe per i malati e per chi li assiste, nella differenziazione dei compiti fra chi ha la responsabilità scientifica e medica, chi ha funzioni giuridiche e chi ha compiti di indirizzo politico e normativo.

Questo fatto non dovrebbe destare eccessiva meraviglia considerato che i temi di una qualche rilevanza etica sono sostanzialmente assenti, non tanto da un dibattito politico particolarmente fazioso su queste problematiche, ma dalla agenda governativa e parlamentare e, anche conseguentemente, dagli approfondimenti e dai progressi giuridici e normativi salvo pregevoli e rilevanti eccezioni, che non sembrano diffondersi nella cultura degli operatori nei diversi ambiti del diritto. In particolare mentre la Corte Costituzionale ha ribadito più volte (Sentenze n. 282/2002; 338/2003; 151/2009) che l’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e che pertanto la “regola di fondo” è quella dell’ «autonomia e responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione», i giudici ordinari entrano “a gamba tesa” nelle attività sanitari e assistenziale prescrivendo i trattamenti.

Da qui conseguono una serie di situazioni kafkiane. Ad esempio: nel marzo 2013 la corte d’Appello di Bologna ha richiesto a una donna 113mila euro, i soldi spesi per curarsi da un mieloma con la cura Di Bella, dopo che una sentenza del 2006 aveva invece stabilito che aveva diritto alle cure; venendo al caso stamina da un lato alcuni giudici obbligano gli ospedali civili di Brescia a somministrare la terapia e contemporaneamente un’altra sede giudiziaria indaga gli stessi per la somministrazione di farmaci guasti!

(Fonte: SALUTEINTERNAZIONALE.info)


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