Piccola impresa tra crisi e cambiamento

Milano vive di piccole unità, dall’industria ai servizi.  Per uscire dalla crisi, a queste imprese non basta la riduzione del cuneo fiscale. Ci vuole altro. Per esempio, capitale pubblico per far crescere le aziende ad alto potenziale. Se ne parla al convegno alla Casa della Cultura il prossimo 15 aprile.
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Le piccole imprese sono un ecosistema di organizzazioni diverse per storia, dimensioni ed esigenze. Da una parte ci sono le micro e piccole imprese artigiane, dalla vicenda  spesso decennale, e le tante piccole imprese nel manifatturiero. Molte piccole fabbriche non esistono più o hanno sofferto la crisi in modo sproporzionato, tuttavia nei casi più favorevoli sono già “fuori dal tunnel”, grazie all’elevatissima specializzazione e ad una capacità se non propriamente di trainare innovazione quantomeno di captarla e sapersi adeguare rapidamente. C’è poi tutta la microimprenditorialità nei servizi, quella storica, quella di recente sviluppo da parte di persone espulse dal mondo del lavoro e ancora quella legata alle attività commerciali nonché quella dei giovani freelance - startupper, perché per gli under 40 non è raro essere contemporaneamente precari ed imprenditori di microaziende. Anche le piccole imprese nella filiera agroalimentare hanno ripreso a crescere nei numeri e negli obiettivi che si propongono di raggiungere grazie al boom del biologico e alla riscoperta delle coltura e degli alimenti locali.

Aziende perlopiù padronali
Pur nella loro diversità queste organizzazioni sono accomunate da alcuni aspetti molto frequenti.
In primo luogo sono aziende a conduzione familiare, padronali non necessariamente nello stile, ma nei fatti. Il fondatore o un suo erede accentra su di sé la totalità delle decisioni strategiche e una parte consistente delle attività operative, soprattutto nel rapporto con i clienti. La maggioranza di questi imprenditori non si è formata sui temi del management, del controllo di gestione e su altri aspetti della scienza delle organizzazioni e adotta un modello di controllo basato su esperienza e gestione “a vista”.
Negli ultimi anni la difficoltà strutturale ad investire tipica delle micro e piccole imprese è stata aggravata dalla stretta creditizia, dai tassi di interesse e dall’allungamento dei tempi di pagamento, tenendo conto che la piccola impresa non ha generalmente l’affidabilità per potersi rivalere sui tempi di pagamento ai fornitori.
Per questi motivi e per altri legati ai mercati di riferimento diventa molto difficile per la singola piccola impresa superare una soglia dimensionale che la porterebbe a perdere la protezione garantita dal fattore dimensionale e a contendersi, pur magari all’interno di nicchie specifiche, quote di mercato a livello nazionale. Detto in parole più semplici se un’azienda fattura meno di 5 milioni di euro e ha un organico inferiore alle 20 persone, quale che sia la sua nicchia di mercato, in sostanza è “invisibile” per  i concorrenti più grandi e strutturati e questo la protegge.

Non riduzione del cuneo fiscale, ma strumenti per competere nel mercato globale
Sicuramente la piccola impresa italiana ha una struttura di costi, causa pressione fiscale e costi di conformità alle severe normative in materia di sicurezza e ambientale, più penalizzante di altri Paesi emergenti in Europa. Tuttavia queste difficoltà più specifiche sono anche, e spesso soprattutto, legate alla difficoltà di acquisire nuovi clienti, lanciare nuovi prodotti, sviluppare il giusto know how, accedere al credito come detto in precedenza. Anche la strategia storica delle “svalutazioni competitive”, oggi preclusa dall’euro, non pare in ogni caso riproponibile nel momento in cui la debolezza delle nostre piccole imprese è a monte, nell’innovazione e negli investimenti a supporto.
Per questo sentire che in politica la maggioranza delle proposte per lo sviluppo della piccola impresa si concentra nella direzione della riduzione del cuneo fiscale genera delle perplessità tra gli addetti ai lavori, in quanto approccio sostanzialmente scollegato dai problemi di cui abbiamo parlato.
Soprattutto quando questa tipologia di interventi si inquadra in uno scenario di tipo liberista caratterizzato da un'assoluta priorità assegnata alla competitività di prezzo e quindi alla compressione dei costi, in primo luogo, quello del lavoro, la piccola impresa è fortemente a rischio di affogare non avendo molti degli strumenti che servono per competere nel mercato globale.

Opportunità europee e contratti di rete
In questo scenario diventano particolarmente preziose le opportunità Europee, mi riferisco in particolare ai bandi e i finanziamenti. Diventano interessanti anche tutti gli strumenti di aggregazione, come ad esempio i contratti di rete, che consentono ad aziende che appartengono alla stessa filiera, che forniscono prodotti e servizi complementari o analoghi di presentarsi insieme come soggetti regolati dal diritto senza perdere le proprie identità.
Se si guarda oltre la lettera di queste nuove normative e opportunità è possibile leggere una visione sistemica delle organizzazioni e delle filiere e un’idea di economia sociale che realizza contemporaneamente obiettivi di business e obiettivi di sviluppo e riqualificazione, che può coniugare rispetto del lavoro e eccellenza di prodotto/servizio e processo. Economia sociale non è quindi solo il baratto o forme magari interessanti di sperimentazione sociale che si collocano però al di fuori dell’economico ma è anche e soprattutto l’esistenza di modelli di sviluppo organizzativo definibili di sinistra per visione del mondo e idee guida.

Questi modelli possono definirsi e sono implementabili all’interno di politiche economiche e industriali che solo lo Stato, le Amministrazioni locali in primo luogo, l’Università e i Centri di ricerca, le Associazioni di Categoria, i Partiti, i Sindacati e tutti i corpi intermedi “sani” possono ideare o potenziare o ancora facilitare. Per poter ricoprire questo ruolo di demiurghi istituzioni e associazioni devono però , almeno in parte, cambiare pelle ricucendo gli strappi prodotti da una lunga storia di fraintendimenti, incidenti e reciproche diffidenze nel loro rapporto con la micro e piccola impresa.  Questi attori devono anche valutare la possibilità di intraprendere strade che si discostano dalle tradizionali pianificazioni per filiere e per distretti e si configurano con modalità più “ad hoc”. Una possibilità ad esempio è il “private equity di stato”, un soggetto che entra nel capitale e presumibilmente anche nel management di aziende private ad alto potenziale per favorirne la crescita dimensionale e la capacità di investimento.

Ne parliamo con rappresentanti della PA, dell’Università e dei corpi intermedi tutti già in prima linea sul fronte del cambiamento organizzativo e di mentalità martedì 15 aprile alla Casa della Cultura di Milano, alle ore 2045.



Ing. Michela Rea
michela.rea@mindtheprocess.com



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