Andar per libri: Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese

Con questo articolo inizia la collaborazione di Raffaele Santoro con il nostro giornale. Raffaele è un lettore “forte” anzi “fortissimo”, esercitato da tempo non solo a leggere ma anche a scrivere con competenza ciò che pensa di ciò che legge. Con lui abbiamo concordato una presenza mensile con un primo ciclo dedicato a autori italiani del secondo novecento, quindi non opere recenti, particolarmente importanti per la loro scrittura e per l’impegno civile. Il primo incontro è con Anna Maria Ortese e con il suo Il mare non bagna Napoli, un libro, ormai un classico della nostra letteratura, che merita una pronta lettura. ()
il mare non bagna napoli

l mare non bagna Napoli è una delle opere più conosciute di Anna Maria Ortese. Pubblicato nel 1953 questo libro è, in primo luogo, una cronaca, lucida e dolente, sulla Napoli del dopoguerra.

Ma in realtà è assai più di questo. Nei quattro racconti che compongono la prima parte, per altro tutti bellissimi, e nella gelida analisi dell'atteggiamento - secondo lei “fatalistico” - degli scrittori e degli intellettuali napoletani di allora, che costituisce la seconda parte, non a caso intitolata “Il silenzio della ragione”, la Ortese mette a fuoco soprattutto una sua personale e amara riflessione sulla condizione umana che l'incontro con quella realtà le ispirò. La costante di tutto il testo è infatti un perenne senso di sgomento per l'insopportabilità che il vivere in quelle condizioni le suscitava, tanto da farle dire: “Da alcuni momenti provavo la stessa agghiacciante sensazione: che tutto fosse pensato, immaginato, sognato, e anche realizzato artisticamente, ma non vero: un'inquietante rappresentazione”. In quanto se quella realtà la si dovesse guardare e dire per quello che essa è, senza trascenderla attraverso un “linguaggio artistico” si sarebbe sommersi da un'immensa disperazione, come accade alla piccola Eugenia, la protagonista del primo racconto: “Un paio di occhiali”, la quale finalmente inforca gli occhiali, quegli occhiali tanto lungamente attesi e, finalmente, “vede” l'orrore in cui aveva sin lì vissuto e viene colta dalla disperazione. In questo senso la grandezza della Ortese sta nell'avere dato, con questa sua “rappresentazione”, dignità al dolore che emana da quella realtà. Un dolore che è parte di un dolore universale, che lì assume quelle forme, ma non è diverso dal dolore umano in quanto tale. Perché, per la Ortese, vi è un livello più profondo di quello fisico e materiale. Quella Napoli lacera e lacerata descritta in queste pagine è infatti anche l'esito della sua concezione della vita e del mondo, la cui origine aveva per lei “un solo nome: metafisica”. Ma, contestualmente, di quella realtà, ella ce ne mostra le viscere, come se fossimo messi di fronte ad un corpo malato e sofferente sia in senso materiale, ma soprattutto morale: “Compiangerla non bastava” dirà lei stessa. Il superamento di quella tipica iconografia di Napoli volta al compatimento avviene tramite il linguaggio che, pur nella sua crudezza assume connotazioni favolistico – fantastiche, ed è nella sofferta indignazione verso ciò di cui parla, in cui vi è sempre un'implicita denuncia che è esistenziale ed etica. Ma è la potente visionarietà complessiva che emana da Il mare non bagna Napoli che colpisce. Vi è infatti una resa visiva fortissima e costante, come se stessimo assistendo alle scene di un teatro dell'assurdo, allucinato e allucinante, a cui l'Ortese fa ricorso per potersi e poterci consentire di attraversare i gironi infernali che si presentavano ai suoi occhi. Come in quell'altro esemplare racconto che è “La città involontaria”, che è quasi la rappresentazione di una sorta di bolgia dantesca. Il rifiuto della rassegnazione che esprime la Ortese emerge poi da quel resoconto, contenuto ne “Il silenzio della ragione”, che lei, giornalista inviata a intervistare gli scrittori del sud, fa a proposito di quello che le appariva l' immobilismo e il fallimento, rispetto ad un possibile riscatto, che proprio quegli scrittori manifestavano. E per tutto quanto in esso contenuto Il mare non bagna Napoli costerà all'Ortese l'accusa di antimeridionalista, tanto che per quarant'anni non tornerà più a Napoli. Ma se il suo senso morale la porta a reagire all'accettazione passiva dell'esistente è anche vero che all'origine di quella “lacera condizione del vivere” vi è per l'Ortese un' ”oscura sostanza” ad intendere ciò che di imponderabile, di sfuggente, di “metafisico” vi è nella vita stessa. E allora forse di quella vita, come della vita in generale, è il viso del Bambino del presepio di casa Finizio – la cui descrizione, contenuta nel secondo racconto “Interno familiare”, è un'altra di quelle emblematiche scene teatrali – a dircene la muta e segreta verità: “Il suo viso non esprimeva nulla, altro che un apatico sorriso, come se dicesse: Questo è il mondo, o qualcosa di simile”.


Anna Maria Ortese
Il mare non bagna Napoli

Adelphi, pagg. 176

(Raffaele Santoro)


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Re: Andar per libri: Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese
11/12/2013 Anna
Bellissima recensione, che mi riporta all'analogo "sguardo metafisico" con cui la Ortese interpreta la realtà nei suoi resoconti di viaggio, contenuti nella raccolta adelphiana "La lente scura". Anche qui, inevitabilmente, si torna a Napoli, ad una città che si sta modernizzando e quindi trasformando e che rischia di perdere la propria identità (quasi il controcanto della Napoli dei racconti)e il cerchio si chiude con questa splendida considerazione: "Questa Napoli: saggia e folle, perduta e vittoriosa insieme: testimone in un mondo crudele, di giorno in giorno più oscuro, di momento in momento più vano, di quella meraviglia che si chiama Poesia". (pag. 414)


 
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