Musica.Milano.Mondo: GABRIELE COEN*JEWISH EXPERIENCE “Yiddish Melodies In Jazz”. Tzadik 2013

Un’esperienza unica nel grande universo della musica klezmer, tra allegria e profondità.
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gabriele coen jewish experience web
Il terzo brano dell’ultima produzione di Gabriele Coen è un omaggio a Mickey Katz (1909-1985) attore, clarinettista e caporchestra di un certo successo negli Stati Uniti degli anni Quaranta, che praticava una via originale al klezmer, o meglio, per usare le sue parole, al jewish jazz, oltre a dare buoni saggi di umorismo yiddish.
Con questo lavoro (come il primo Awakening, sempre per la newyorkese Tzadik dell’altosassofonista e polistrumentista John Zorn) il clarinettista e sassofonista romano di origini ebraiche, già leader del gruppo KlezRoym, mette ulteriormente a punto la sua proposta musicale, mai così limpidamente formulata: dare corpo a un klezmer jazz che guardi alla tradizione e alla storia ma le vivifichi a contatto con suggestioni contemporanee.
Ri-cercando il nesso tra la musica della diaspora e i successivi sviluppi della musica dei neri americani attraverso l’opera di artisti come la Original Dixieland Jazz Band, Benny Goodman, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Cab Calloway…
E poi, soprattutto, la musica di frontiera; delle frontiere inutili che non riescono a fermare le culture, gli incontri, gli scambi.

Il canto popolare Yiddish nasce infatti in Renania ai primi del 1000, mescolando tradizioni e costumi diversi: nomadi e stanziali. E proprio gli ebrei askenhaziti (migrati nell’Europa centro-orientale) cominciano a organizzare piccoli gruppi musicali che vagabondano di paese in paese celebrando le varie ricorrenze sociali o religiose.
La musica dei klezmer, musicisti ebrei mai professionisti, è la musica strumentale tradizionale della loro comunità.
Klezmer significa, tra l’altro, letteralmente “musicante” e deriva dall’ebraico antico kh, strumento e zmer, canzone. I klezmorim (musicanti klezmer) non hanno una formazione musicale qualificata; non esistono infatti conservatori o scuole di musica, ma i musicanti imparano a suonare gli uni dagli altri.

Non godono però di una grande considerazione nella società. Considerati infatti quasi dei fannulloni, vengono invitati a suonare nelle feste ma il compenso non è quasi mai pecuniario e spesso ricevono solo da mangiare. E per poter sbarcare il lunario svolgono tutti altre professioni: barbieri, calzolai, sarti, per la maggiore. Veloci nell’apprendere la musica, improvvisano suonando a orecchio e si possono ascoltare nelle piazze, per tutti i ceti sociali, integrando diversi stili musicali, rendendo il loro repertorio sempre più ricco e vario. E quindi musica strumentale yiddish, musica chassidica (dalle antiche tradizioni comunitarie), musica paraliturgica, canzoni popolari e di teatro.

I componenti delle orchestre possono essere due, tre o più. Il violino è lo strumento principale. Gli altri strumenti tipici sono il contrabbasso, la viola, il violoncello, il flauto traverso di legno, il clarinetto, il trombone e il corno. Tonalità, scale musicali, coloriture,caleidoscopi musicali frutto e riverbero del mondo, dei mondi di questi girovaghi di strada.  Di questi cittadini del mondo.

Come “Yiddish melodies in Jazz” per l’appunto. Un disco pieno, caratterizzato da una musica di sintesi appassionante e spesso imprevedibile, dove traditionals e brani storici, rielaborati in modo molto personale (c’è anche la “Bei Mir Bist Du Schòn, dei resistenti antinazisti del ’43 nel ghetto di Varsavia), si alternano a composizioni originali altrettanto ricche di spunti, come la gustosa “Jewish Five o Mazal Tov From Tobago” sorta di ammiccante klez-calypso; e i timbri della tradizione convivono con gli strappi della modernità più estrema e all’avanguardia.
Se il leader si divide tra il clarinetto e i sassofoni tenore e soprattutto soprano, al suo fianco lavorano due perfetti alter ego come il pianista Pietro Lussu, la faccia apollinea del gruppo, che proprio con Coen dà tutta la misura del proprio valore ed equilibrio, e il chitarrista Lutte Berg, graffiante, sulfureo, elettrico.
Marco Lodo al basso e Luca Caponi alla batteria costruiscono infine, una ritmica che sa essere precisa e duttile. Un lavoro prorompente, che annulla con la sua mistura qualsiasi distanza temporale e culturale, all’interno di una musica che suona sempre dotata di una sua urgenza espressiva, attuale, viva e in evoluzione.
Cominciò così, del resto, anche 1.300 anni fa.

Amerigo Sallusti


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