Isole nel vento

L'arrivo
Una storia adatta all'estate, al sole, al mare, alla voglia di avventura.
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“Ma dove diavolo va?” penso, riscuotendomi dal dormiveglia in cui ero caduto, alla vista del balzo che compie Nazimu per passare a prua. Ho gli occhi gonfi come due spugne. Me li sfrego con forza, come se ciò potesse farmi vincere la pesantezza di una notte passata a sistemare pezzi di tonno sui grossi ami della mia traina.“Che diavolo avrà visto se ancora è notte?”
L'umidità dell'oceano mi ha cacciato nelle ossa il desiderio ardente di una buona tazza di caffè caldo e annaspo cercando il pacchetto di sigarette per tentare almeno di ridurre questo desiderio molesto, ora impossibile da soddisfare.
Intanto Nazimu, raggiunta con due salti la rudimentale ma leggiadra polena del dhoni, appena costruito da lui stesso e dalla sua gente, in equilibrio sull’acqua nera indica qualcosa verso nord, dritto a prua.
“Hah hah, ghega, areme ghega!” grida pieno di gioia girandosi verso poppa. “Ye ye, areme duran ghega!” gli risponde con altrettanta gioia dall’altro capo dell’imbarcazione Darien il timoniere, il più anziano del gruppo. E' seduto accanto a me, dall'altra parte della lunga barra e mentre risponde non smette di controllare con l’indice della mano destra la tensione della sua lenza da traino.

Sono arrivato alla Maldive da neppure una settimana e non ho avuto il tempo di imparar molto del dhivei, la loro semplice lingua. Infatti adesso temo proprio di non aver capito nulla. Da poppa dove sono accovacciato lancio un’occhiata a Madù, un allegro ragazzo di vent’anni a occhio e croce, che da ore se ne stava appollaiato sul bordo sopravento incurante della brezza piuttosto fresca, costante da quando siamo partiti. Lui se ne accorge, ricambia la mia occhiata con un sorriso ed emette un lungo fischio acuto aspirando l’aria tra i denti. Anche gli altri si alzano, scostando le tele e le stuoie sotto cui riposavano. “Ghe! Areme ghega!, ye Kudafari.” si dicono l’un l’altro. “Kudafari?” ripeto meccanicamente, senza nemmeno provare a fare domande. La sigaretta sono riuscito ad accenderla, stranamente con un solo fiammifero, richiudendomi su me stesso come un riccio aggredito. Devo avere un'espressione smarrita, magari da idiota totale, perché Darien guardandomi allarga la sua faccia angolosa in una risata sdentata. “Kudafari” mi conferma ondeggiando la testa su e giù. Ha poggiato la lenza alla sua bitta, spalanca gli occhi e, mantenendo ben ferma la barra, allunga il braccio verso Nazimu e, dietro a questi, verso il lontano, invisibile, scuro orizzonte.  “Balala! Cale ne dan?” mi grida Nazimu in tono divertito mentre torna verso il centro del dhoni. “Ne! ne!” gli grido. No, non vedo un accidente. A parte la Via Lattea e tutti gli altri milioni di stelle che stanno sopra noi come un copricapo di luce, belle da piangere.

“Den Den, cale datturu dascurani!” mi dice allora venendomi vicino. Datturu: navigare, dascurani: imparare. Insomma per lui non sono che un imbranato. Sul significato delle parole potrei anche avere dei dubbi, ma il tono di derisione lo colgo perfettamente. Allora getto il coltello nel secchio, offro la sigaretta a Darien, che la accetta, mi alzo e lo raggiungo, badando a non calpestare nessuno. “Ne dan?” mi ripete Nazimu. Salta ancora verso prua e mi invita a seguirlo, indicando dritto davanti a sé nell’immensità. Piazzato appena dietro di lui, mi sostengo all’albero e mi chino per guardare da sotto alla grande vela latina. “Un accidente!” gli grido in italiano strizzando gli occhi e facendo il gesto istintivo di ripararli dal vento con una mano. Per la verità andiamo al lasco e il vento non sembra essere appunto molto più che una brezza. “Hah, cale saccarà!” mi grida con lo stesso tono di prima. Saccarà: male, cattivo, inutile, fai proprio pena, questo vuol dire. Ma il tono di gioioso rimprovero adesso mi rende la parola tanto gradevole e amica.  

Quattro mesi di lavoro, Nazimu e la sua gente, laggiù nel porto di Male, la capitale, segando e piallando le tavole di legno per finire l’ultimo dhoni. Da consegnare subito ai giapponesi, mi ha detto, per riuscire a tornare a casa con il compenso appena prima che inizi il ramadan. E io, arrivato dall’Italia da poche ore, mi sono infilato nelle loro vite proprio il giorno della partenza, il gran giorno del loro ritorno. Ora ci siamo, sembra. Kudafari è laggiù, anche se ancora non visibile a occhi normali. Data l’andatura ci vorrà qualche ora - penso - perché il motore, un diesel Yamaha nuovo di zecca sistemato a centrobarca, viene usato solo in caso di prolungata bonaccia. E’ trattata come una divinità, questa macchina. Vale tre dhoni da 14 metri, come questo, e mesi di lavoro di un intero villaggio. Ora è una proprietà dell’isola. Ma più che una proprietà forse una specie di divinità benigna, anche se non del tutto, perché straniera. Solo Nazimu lo può toccare. Lo ha acceso per una ventina di minuti, circa un’ora dopo essere usciti dal porto. Non per uscire, si badi bene. Dalla banchina ci siamo staccati, a mezzanotte, con una manovra compiuta con grande abilità e naturalezza. Madù e altri due di loro hanno alato sul corpo morto, di poppa, passando poi la cima d’ormeggio a prua, con il dhoni che poggiava al vento in un movimento pigro e pesante. Poi è stata issata la penna, la grande vela latina si è gonfiata e l’ormeggio è stato mollato appena iniziato il brandeggio sottovento. E immediatamente, in pochi istanti, era stato issato anche il fiocco, chiamiamolo pure così, per dare potenza. Da manuale. La barca, preso rapidamente l’abbrivio, è passata in mezzo ad altre ormeggiate alla ruota in un vivace intercambio, penso, di auguri e saluti. A me non hanno permesso di fare nulla. Ci ho provato ma mi facevano, agitando  le mani, aperte e tirate all’indietro, gentili ma preoccupati segni di diniego. Nazimu era restato al timone fino a che le luci di Male non avevano iniziato a sfumare nella notte. Poi lo aveva ceduto a Darien e acceso il motore. Non ce ne sarebbe stato bisogno, perché il vento, fresco e al traverso, faceva inclinare e correre il dhoni con grande soddisfazione di tutti. Io credo che Nazimu avesse voluto fare l’ennesima prova prima di essere troppo distanti. Ma più probabilmente si era trattato di una specie di rito. Solo lui lo toccava, ho detto, mentre tutti gli altri avevano trattenuto il fiato attendendo l’accensione e poi, tutti meno Darien, sospeso il lavoro qualche minuto per ascoltare in silenzio il cupo brontolio di quel dio nascosto, straniero benigno e potente. Nazimu gli girava attorno con agilità e attenzione, come un giovane monaco. Oliava con cura i giunti, controllava la tensione delle pulegge, guardandolo e toccandolo sempre con rispetto, come se temesse di adirarlo (questa però può essere solo una mia fesseria). Ma il vento è stato costante e propizio per tutto il viaggio. Ovvio, trattandosi di alisei. Così il genio straniero per tutto il tempo ha potuto dormire tranquillo nel suo giaciglio di ferro. Anche ora che stiamo arrivando.

Il monsone è ancora lontano, nel tempo e nello spazio, e dunque l’aria rimane purissima e tersa. Una parte di notte, un giorno e ancora la notte, da quando siamo partiti da Male. La pelle mi brucia un po’. Per il sole, certo. Ma sono specialmente le mani, che proprio non sono riuscito a proteggere, a darmi fastidio. Perché pescare almeno me l’hanno permesso e ogni minuto un bonito abboccava a una delle due lenze che incessantemente io e Darien abbiamo issato e calato, issato e calato di giorno e di notte riempiendo tutti i cesti e anche un cassone di legno a poppa, di quella grazia di Dio che subito veniva pulita, sfilettata e disposta in strati ordinati, in attesa del sole. Fortuna che avevo già qualche bel callo. Non posso fare a meno di pensare a quando scendevo l’Adriatico con il mio vecchio otto metri. Da Chioggia a Porto Garibaldi con la mia traina pescavo anch’io. Già, però davanti al delta del Po. Centinaia di sacchetti di plastica pescavo! Finivano anche nell’elica, costringendomi a scendere in mare ogni momento per liberarla. Ma al diavolo adesso! Questo è l’Oceano Indiano e io ci sono proprio nel mezzo. La maggior parte dei pesci che abbiamo pescato verrà essiccata ma ce ne sarà certamente anche per qualche bella grigliata fresca. Sì, grigliata, magari. Qua il pesce lo cuociono, orribile a dirsi, nell’olio di cocco. Io non riesco proprio a mangiarne. O meglio, quando ho dovuto l'ho fatto, ma è come mangiare pesce cotto nella crema abbronzante, lo stesso odore, lo stesso sapore. Ne mangiano tutti i giorni, pure con gusto dannazione a loro. A me invece prendeva una nausea mortale. E dopo mezz’oretta cominciavo a sentire come un fuoco dentro lo stomaco che mi durava tutta la giornata e anche di più.

Ora Darien porta il dhoni alla puggia e il vento, adesso al giardinetto, sembra calare. (Giardinetto, che nome ridicolo qui, che non c’è una piantina neppure a pagarla.) La notte è ancora profonda. Mi sento stranamente felice. Tutte strane sono le sensazioni che provo. Intanto la solitudine. A pensarci potrei sparire nel nulla senza alcuna certezza che qualcuno mai mi venga a cercare. Ma solo, in verità non lo sono affatto. Mi sento protetto dall’amicizia di questa gente sconosciuta come non mi è mai successo neppure nella città dove son nato. Ora andiamo di poppa piena, non c’è molto mare e il dhoni si mette a rollare con una certa ritmica dolcezza. Tiene bene il mare questa barca ancestrale. Gli incastri e i chiodi di legno scricchiolano e si torcono, emettendo una specie di intermittente aspra cantilena.  La vela, di tela pesante, seppure alla massima apertura, è ferma e piena come un sacco di riso in magazzino. Le cime in fibra di palma, filate al massimo, si tendono molto dure e ruvide al tocco.

Laggiù dunque dovrebbe esserci Kudafari, la loro isola, duecento miglia a nord della capitale. Nazimu l’ha già vista. Nella notte l’ha vista, con quegli occhi bruni, solo attraverso il riverbero del plancton. Sono striscioline di terra che si innalzano di pochi metri sul livello del mare, queste isole, ma ai loro occhi per vederle basta la lontana luminescenza creata dalle onde quando rompono sul reef e il plancton si accende come la coda di una cometa. Da un bel po’ tutti hanno visto anche l’entrata del porto. Porto. Solo una piccola apertura nella barriera corallina segnalata da un tronco di palma conficcato nella sabbia madreperlacea del fondo. Ora lo vedo anch’io e le mie grida di gioia fanno ridere tutti. Devo sembrare buffo come uno che capisce in ritardo una barzelletta. E sì che mi sono sempre vantato del mio occhio nautico. È ancora scuro quando Nazimu, dopo che il dhoni era tornato brevemente di bolina larga, dà l’ordine di ammainare la grande vela centrale (non credo si possa chiamarla randa, perchè manca di boma). Darien torna a puggiare e ora si avanza col solo fiocco. Ma presto, appena entrati nel reef viene sventato e raccolto anche questo. Già avevo issato la mia lenza e il timoniere la sua. Tutti, meno Nazimu e Darien, mettono mano ai remi, finendo senza sforzo il breve avvicinamento alla costa. Vorrei aiutarli ma men che meno ora me lo permettono. Mi dispiace, però così ho modo di osservare meglio quello che accade. E ne sono felice perché d’improvviso sulla riva compaiono come per magia decine di luci, alcune tremule, altre forti e nette come lame di sciabola. Le luci entrano in acqua e l’acqua si incendia. Anche attorno alla carena del dhoni l’acqua si incendia. Un fuoco bianco-azzurrognolo che si confonde con quello delle stelle e fa pensare a quell’ora del mondo quando Dio forse non aveva ancora pensato se e come separare la luce dalle tenebre. Boia che bel pensierino. Io non sono particolarmente religioso, almeno non in un modo convenzionale, ma sotto questo cielo mi sentirei di sfidare perfino Voltaire a negare l’esistenza di una qualche sostanza divina. Non solo è tutto troppo bello, ma io sono qui a vederlo, come se tutto ciò, eterna illusione, non avesse aspettato che me per risplendere.

Il tonfo dell’ancora e la fantasmagoria del plancton sollevata dalla sua caduta interrompono le mie elucubrazioni, che ora mi sembrano solo goffi svolazzi, come di povere quaglie. L’ancora tocca fondo, il dhoni gira a ruota sul perno e la poppa si fa vicinissima a riva. Tutti scendono in acqua con i bagagli sopra la testa. Io ho il mio zaino, il fucile subacqueo e la cintura dei piombi attaccata alla vita. Ma il corpo non si immerge in un liquido: è più esatto dire che stiamo entrando nella notte come entrassimo in una sostanza divina. Eccomi ancora a straparlare di Dio. Però è inutile resistere: Nazimu, Madù, Darien e gli altri, distanti pochi metri, si son già trasformati in esseri di luce. E la luce divina, vitale, li accoglie, li abbraccia e segna il breve cammino tra l’imbarcazione e la spiaggia come una traccia lasciata da creature scese da stelle vicine. Non ci sarà Dio, caro Voltaire ma, senza offesa, qui e adesso la parola illuminismo mi fa soltanto sorridere. Forse sono solo un idiota, ma mi sento vicino al rapimento che cercavo. Vicino a varcare una soglia, ad aver cambiato vita, mondo, galassia. “Bada piuttosto a non cadere, pistola” mi dico, e il motivo banale è che ho barcollato buffamente a causa di un avvallamento sul fondo. Pochi passi e la riva. Una frotta di bambini mi ha visto. Stanno lì perplessi per qualche secondo. Vedo non troppo distintamente le faccine stupite sopra le loro magliette, più visibili perchè più chiare. Ma molti son nudi dalla cintola in su. Qualcuno, un poco più grande, già porta il sarong. Si passano la voce, corrono, si buttano in acqua tra le gocce di luce del plancton, chiedono ai grandi chi mai sia questo straniero, sorridono, mi indicano, si avvicinano senza toccarmi, ridono e mi salutano con allegria. Attacca una musica di tamburi e altri strumenti che non saprei dire. Appena metto piede sulla spiaggia compare una ragazza bellissima, almeno così mi sembra in questa luminescenza lunare. Non è nuda, non porta una ghirlanda di fiori sul seno e non me ne getta una al collo. Più prosaicamente indossa un vestitino azzurro corto sopra le ginocchia e ancor più prosaicamente neppure di un'occhiata mi degna. Ma è proprio splendida. Lunghi capelli lisci e neri mossi dal vento e negli occhi le luci danzanti delle torce. A un passo da me nemmeno mi guarda, credo proprio, o non vuole darlo a vedere. Anche lei ha in mano una torcia. Anche lei piedi nudi. Va verso Nazimu. Ridono e si abbracciano, ma subito si allontana. Dopo saprò che è sua sorella Shanin, di quindici anni. Camminiamo sulla sabbia tra le palme e d’improvviso sbuchiamo nel bel mezzo del villaggio, alla luce di un grande falò. Appena facciamo il nostro ingresso nel piccolo spiazzo centrale i suonatori attaccano uno sfrenato baburu, simile a quelli già uditi nella capitale, e un gruppo di danzatori, tutti uomini, inizia ad agitarsi al suo ritmo. Stravolgono la faccia e si agitano come indemoniati. E' vero, donne se ne vedono poche. Ma dappertutto piccoli fuochi, cibo su foglie di palma, pesce che cuoce, nell’olio di cocco purtroppo, su braci di legna, ovunque frutta in mucchi ordinati. Nella gran confusione ho perso di vista Nazimu e anche gli altri. Mi sento smarrito ma un uomo basso e scuro mi chiede qualcosa, se ho sete o fame, il segno è eloquente. Dico sì con la testa e un sorriso. Mi accorgo di essere stanco. Lui mi invita a seguirlo, si avvicina a un mucchio di cocchi e ne apre uno con due colpi precisi del suo grosso coltello, in un gesto che vedrò ripetuto tante volte e che finirò per fare anch’io con una certa destrezza. Bevo. Avidamente, il liquido mi cola sul collo. Ho sete, ma non mi piace troppo neppure il latte del cocco. L’uomo ride e con la mano mi indica il cibo. Sérviti, è tuo, sei a casa. Nazimu si ricorda di me e mi chiama, vuole che vada a casa sua. Mi presenta al padre, il Catìbu, il capo isola, pronunciando buffamente il mio nome. La famiglia del capo alle Maldive si chiama come le isole. Lui è Alem Kudafari, padre di Nazimu e Shanin. E’ amichevole, ma mi guarda severo, sulla soglia della sua capanna. Un uomo robusto, maturo, con seri occhiali di tartaruga, in camicia, i capelli che già danno sul grigio. Entriamo e mi fa sedere. Non parla molto, mi dice solo “Ti né, mihun?” Le parole non le capisco ma non ne ho bisogno perché negli occhi leggo le sue domande: cosa vuoi, cosa cerchi tanto lontano da casa tua, dov’è il tuo paese? Ce l’hai una famiglia, una donna, dei figli? Questo mi chiedono i suoi occhi severi. Insomma, chi sei? Sì, dev’essere così. Ti né. Mi chiede chi sono. Ma io non so se lo so chi sono, Catìbu. So che sono stanco. Sì, una donna ce l’ho, o ce l’avevo. Figli no ma ne vorrei. Lei no, Catìbu, non ne vuole, o forse sì, come posso spiegare? Cerco una barca, Catìbu, come quella con cui sono arrivato qui con tuo figlio. Forse perché vorrei essere come lui, sai? Vorrei saper costruire dhoni come lui, con un’ascia, una sega, un trapano a corda e una fune intinta nella vernice rossa e fatta schioccare sul legno per tracciare le righe. Senza neppure un chiodo di ferro. Vorrei sapere pescar pescecani con un vecchio arbalete e vedere nella notte una palma secca piantata nel fondo della baia ore prima degli altri. E trovare la rotta tra le onde e le stelle come fa lui. Per questo sono arrivato fin qui, Catìbu, per imparare. Dascurani. O forse anche per salvarmi l'anima, Capo. Ma adesso fammi dormire da qualche parte. Domani parliamo, se vuoi. Mi è caduta addosso una stanchezza mortale e quest’odore di pesce cotto nell’olio di dannata palma da cocco mi da il voltastomaco. Non potrei mangiare neppure un boccone adesso, perdonami Catìbu, perdonami Capo, perd… Proprio in questo momento un conato di vomito mi coglie a tradimento come un brigante da strada. Vomito, perdio, in casa di Nazimu, davanti al padre e alla madre che mi osserva da dietro una specie di porta fatta di palma intrecciata. Vomito e mi sporco le mani nel tentativo di resistere, mi piego, slordo anche il pavimento di terra battuta, le stuoie, rantolo e mando attorno un odore schifoso. Nazimu mi aiuta ad alzarmi, la madre esce dal suo riparo e mi parla, credo che dica dove sistemarmi. Mi fanno sdraiare in un angolo della casa. Compare una donna con un bacile d’acqua e una coperta grigia. Mi lasciano solo. Mi lavo le mani e la faccia. Mi copro perché ho un po’ di freddo, ma quasi subito mi addormento, sognando di pesci alla griglia. O forse di Dio, del plancton e delle altre sue stelle.    

(continua, forse)

Adalberto Belfiore


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