Sia lode ora a uomini di fama: Fabio Treves

Nella nostra zona ci sono e ci sono state persone importanti che contribuiscono e hanno contribuito al progresso sociale, civile e culturale della nostra città e del nostro Paese. L’occasione di conoscerle è un modo per stare nella storia e nelle stagioni. ()
fabio treves web
Abbiamo incontrato Fabio Treves nel suo improbabile “ufficio”, un caffè/pasticceria di via San Gregorio. Dotato di una notevole carica di simpatia naturale, ci ha raccontato con passione affabulatoria la sua avventura di musicista militante e di protagonista di almeno quarant’anni di vita milanese. È stato un pomeriggio di rara piacevolezza e di condivisione culturale di progetti ormai  passati alla storia.
Si è anche parlato di Enzo Jannacci a cui Fabio ha rivolto un ultimo saluto: “Ciao Enzo, te voeri ben!”. È difficile non voler bene anche a Fabio Treves, una vita in blues.

Come nasce la tua passione per la musica?
Nasce da mio padre che era un neurologo psichiatra, uno dei primi personaggi veramente famosi di Lascia o Raddoppia? Era un omone grande e grosso che aveva passioni pazzesche: i bei libri, i bei film e la buona musica. Da lui ho ereditato queste tre passioni. Quando ero bambino, dopo avere giocato per ore e ore in via Carpaccio a “porticine” (calcio di strada, ndr), tornavo a casa e ascoltavo tanta musica. Poteva essere Amalia Rodriguez, oppure Mozart, potevano essere Sonny Terry e Brownie McGhee, due grandi  folk blues americani. Sentivo musica per ore e ore. Mi affascinava. Quando poi negli anni ’60 è arrivata l’ondata del beat dall’Inghilterra e sono arrivati i primi gruppi rock, io sentivo che c’era qualcosa che già conoscevo ed era ovviamente il blues, quel filone che aveva influenzato anche musicisti d’Oltre Manica. Da lì ho iniziato a interessarmi e a comperare dischi anche se, una volta, era un’impresa accaparrarsi un disco di blues perché non esistevano negozi specializzati.
Ricordo trasferte all’Innovazione di Lugano per acquistare l’ultimo disco dei Deep Purple o dei Led Zeppelin. Ho fatto un cammino all’incontrario, partendo dal rock sono arrivato alle radici del blues. Ho capito che il blues era veramente la musica d’origine dalla quale avevamo preso spunto tanti altri generi musicali come il jazz, il rhythm&blues e il rock’n’roll e da lì non mi sono più mosso.
Professionalmente sono arrivato al blues nella metà degli anni ’70 dopo alcune militanze in gruppi e gruppetti più o meno famosi, ho anche partecipato, come corista di Fausto Leali, al Festival di San Remo nel 1973, poi nel 1974 ho deciso di partire con la Treves Blues Band. Ovviamente erano anni in cui il blues non andava di moda. Erano di moda i cantautori, la musica politica, la musica dei Canzonieri, la musica di rottura e le avanguardie del jazz.
Molti considerarono allora una follia formare una blues band che, tra l’altro, portava il mio nome. Però ho tenuto duro, gli inizi sono stati molto difficili. Erano anni in cui prestavo il mio blues a cause nobili. Per farmi conoscere non ho mai partecipato a programmi televisivi, anche perché non mi hanno mai invitato, partecipavo invece alle manifestazioni per le fabbriche in lotta. Ricordo concerti per gli operai della Innocenti e della Faema, fabbriche molto importanti per Lambrate che era anche la zona in cui vivevo. Partecipando alle occupazioni delle fabbriche e delle scuole, ho capito che la gente amava questa musica, anche se non veniva mai trasmessa per radio o per televisione. Il blues, negli Stati Uniti, rappresentava la quintessenza della musica popolare ed era giusto diffonderla anche da noi.
Successivamente, grazie all’amico Renzo Arbore, ho partecipato a trasmissioni televisive come  L’altra domenica,  Quelli della notte e Doc e, in questo modo, la Treves Blues Band è diventato il gruppo storico del blues made in Italy.

Perché il blues?
Secondo me, il blues è la musica della fratellanza, è musica di pace, è musica che unisce. Attraverso il blues c’è stato il riscatto dell’intero popolo afroamericano. Negli USA, il blues ha rappresentato la trasgressione, la protesta ma anche la voglia di non sentirsi mai afflitti. La dignità non si perde con il blues. Ho capito che i valori tipici di questa musica erano profondamente condivisi dalla gente che veniva a sentirci. Camminare in direzione del blues mi sembrava la cosa
giusta.

Un incontro che ha segnato la tua vita artistica…
Nella mia carriera di musicista ci sono stati molto incontri che mi hanno reso felice. Per la mia vita artistica l’incontro più importante è stato quello con Frank Zappa che non era un musicista blues ma era un autentico genio, il Genio di Baltimora. Era un personaggio incredibile, potrei parlarne per ore…
Per i mondiali di calcio del 1990, Zappa aveva in mente un grande progetto e voleva chiedere la disponibilità del Teatro alla Scala. Io lo accompagnai dal Sindaco e dall’Assessore alla cultura di allora che però gli negarono l’uso del teatro. Zappa aveva grandi sponsor, poteva garantire la mondovisione, chiedeva anche un contributo economico che però il Comune di Milano non potè o non volle sostenere.
A distanza di anni penso ancora cosa sarebbe mai stato un evento di quel tipo con Frank Zappa che dirigeva una grande orchestra, lui pensava alla San Francisco Philarmonica Orchestra, alla Scala di Milano. Ma non si vive di rimpianti, anche se sono cose che fanno pensare.
Ci sono stati poi altri incontri stupendi con B.B. King, con Muddy Waters, con le leggende del blues che ho conosciuto in tanti anni di concerti e di partecipazioni a festival in Italia e all’estero. Certo che quegli incontri a Memphis sulle rive del Mississippi…

Chi consideri i tuoi maestri?
Ho tanti maestri perché nel blues le sfaccettature e gli stili sono tantissimi. Sicuramente devo molto a Sonny Boy Williamson, un armonicista attivo negli anni ’40 che ha influenzato moltissimi musicisti, e poi ovviamente Muddy Waters, un armonicista tuttora considerato il padre del blues moderno.


Perché hai scelto l’armonica a bocca per interpretare la tua musica?
Ho iniziato a suonare l’armonica per disperazione… Mi piaceva l’organo ma non ne possedevo uno, poi sono passato al basso, poi alla tromba e poi al sax, ma ogni volta i maestri mi consigliavano di lasciar perdere… Ma siccome volevo suonare il blues mi sono rifugiato nello strumento più piccolo al mondo. L’armonica a bocca mi ha dato enormi soddisfazioni. Ai giovani che mi chiedono consigli dico sempre di tenere duro e di non farsi prendere dalla depressione, perché se ce l’ha fatta Treves, ce la possono fare anche loro…

Un pezzo musicale, uno solo…
È praticamente impossibile indicare un pezzo solo. Il pezzo che forse ho interpretato di più si chiama Sweet Home Chicago, scritto da Robert Johnson nel 1936, che è stato poi ripreso e reso famosissimo dal film The Blues Brothers. Era il pezzo con cui aprivo e chiudevo i miei primi concerti. È una canzone che racchiude il senso del blues della città di Chicago, la “città ventosa”, la patria del blues urbano e del blues elettrico.

A parte la musica e il blues, quali sono le tue grandi passioni?
Sicuramente il cinema. Mio padre si presentò a Lascia o Raddoppia? come esperto di film. Altra mia grande passione è lo sport. Sono un tifoso del Milan… Ma sono anche un grande appassionato di rugby. Anzi, ultimamente seguo forse di più il rugby che non il calcio. Sono anche un ambientalista ante litteram, mi è sempre piaciuto rispettare e fotografare l’ambiente. Sono anche un fotografo militante, ho fotografato tantissimi personaggi che ho incontrato nella mia carriera. Oggi, c’è una mostra che sta girando con le mie fotografie.

Qual è il tuo rapporto con Milano?
Amo la mia Milano, è una città che sento mia. Ho abitato per tantissimi anni in questa zona, prima in via Gallina, dalle parti di piazza Ferravilla, poi in via Carpaccio. Ricordo infinite partite di calcio in piazza Leonardo da Vinci. Mi piace ricordare la Milano di quanto ero ragazzino, le latterie, gli oratori… Ho anche fatto il consigliere comunale per sette anni con delega ai giovani. Ho lavorato con entusiasmo per rendere questa città più vivibile, più interessante, più ricca di cultura.
Ci sono tanti modi per fare cultura, c’è la Scala, ci sono le mostre dei grandi pittori, ma c’è anche la cultura diffusa, underground, la cultura giovanile, del nuovo, della tolleranza.
Non dimentichiamo che il blues è cresciuto grazie all’intreccio e alla fusione di culture diverse. Ad esempio, il blues che si suona in Louisiana ha ritmi e reminiscenze di sonorità tipiche della cultura francese. Nel sud della California, il blues risente dell’influenza messicana. Solamente accettando culture diverse dalla nostra si può crescere umanamente e culturalmente. Dico sempre ai giovani di ascoltare tutta la musica, perché è il solo modo per farsi una propria idea sulla buona musica.

A cosa devi l’appellativo “Il Puma di Lambrate”?
Nella metà degli anni ’70 arrivò a Milano John Mayall, grandissimo interprete blues inglese, soprannominato “Il Leone di Manchester”. A quei tempi, un giornalista, nell’annunciare l’esibizione di Mayall a Milano, ricordò ai suoi lettori che a Milano esisteva anche “Il Puma di Lambrate”, cioè Fabio Treves.
Questo simpatico appellativo ormai fa parte del mio personaggio.

Progetti per il futuro?
Tanti progetti. Bisognerebbe avere il tempo per realizzarli tutti. Sto lavorando a un libro fotografico sulla mia esperienza culturale e sugli incontri che ho avuto in oltre quarant’anni di carriera. Mi piacerebbe anche riprendere in chiave blues i brani “più blues” di alcuni grandi musicisti come Luigi Tenco, Enzo Jannacci, Gino Paoli, Fabrizio De Andrè, Bruno Lauzi.
Pensate al mitico Bruno Martino con la sua Estate o Paoli con Sassi…
Mi piacerebbe anche riportare un festival blues a Milano. Anni fa ci sono state alcune edizioni di una rassegna blues all’Arco della Pace, in uno scenario bellissimo. Mi piacerebbe riportare il grande blues a Milano.

(a cura di Massimo Cecconi)

In apertura: Fabio Treves a Blues in Idro 2007, Foto di Maurizio Dehò.
A seguire: Frank Zappa e Fabio Treves, Foto Galimberti

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