Il corpo delle donne e il corpo del pianeta

Una proposta di visione del mondo, esposta da Antonella Nappi  - impegnata da anni nel femminismo ecologico - che invita a non ripetere i messaggi del potere. Spiega come in un incontro sabato 2 febbraio, alle ore 18.00, alla libreria delle donne Via Pietro  Calvi. Il testo completo delle sue riflessioni è disponibile alla Libreria. ()
Madre Natura web
Meglio cercare la stabilità 
Molti studiosi da decenni avvertono che gli effetti della meccanizzazione minacciano di rendere invivibile la biosfera per tutte le forme di vita perché produrre in quantità sempre maggiori e per popolazioni sempre più vaste, esaurisce le risorse naturali e le inquina con ogni tipo di scarico e rifiuto. Con la produzione crescente di energia, la crescita dei consumi e degli spostamenti a motore, infine con la cementificazione del territorio e la distruzione delle foreste, il degrado ambientale è giunto al punto di proseguire anche solo per inerzia e può distruggere la possibilità di vita della prossima generazione. Sembra difficile crederlo nell’assenza di mobilitazione politica in proposito. Il fatto è che la mobilitazione degli studiosi è soffocata volutamente per gli interessi contingenti di diversi soggetti: “crescita” vuol dire profitti e consenso. Comunque qualche cosa inizia a trapelare e informarsene, dialogare dei problemi ambientali, diffonde la riflessione sugli aspetti delle ricadute nocive di questo tipo di sviluppo e dei comportamenti che induce. A ben guardare, la crescita economica arricchisce pochissimi e depaupera tutti gli altri. 

Demografia e procreazione
Bisogna comprendere che già l’esistenza stessa di ciascuno, con l’ attività necessaria che comporta, ha una incidenza inquinante nel pianeta di cui si deve tenere conto. Anche l’ equilibrio tra le specie animali e tra queste e quelle vegetali è importante per la nostra sopravvivenza ed è stato sovvertito dall’espansione della specie umana che è riuscita a contrastare sempre di più la morte anticipata senza però ridurre le nascite. Se chi nasce vive a lungo, la sostituzione generazionale diviene molto più lenta e tanti bambini diventano tanti vecchi, Livi-Bacci la chiama “efficienza procreativa”. Questo cambiamento della struttura della popolazione, dove tanti adulti si addizionano, è un fatto positivo naturalmente e quando gli abitanti di un paese se ne rendono conto la natalità tende a decrescere (Livi -Bacci) ma ci vuole tempo.
Certo, se le donne potessero fare solo i bambini che desiderano, se potessero governare la procreazione senza violenze, la popolazione mondiale sarebbe di già molto più contenuta.

Dipendiamo dalla natura
Salvo gli studiosi che si sono occupati anche dell’ambiente, partiti, intellettuali ed economisti convenzionali hanno ignorato ciò che origina e supporta la ricchezza (di alcuni) e la vita di tutti: sono le risorse naturali e l’incessante lavoro della natura che le rigenera. Il pensiero politico ha visto l’economia come capitale e lavoro, reddito e mercato, invece l’origine e il supporto di ogni economia sono: terra, acqua, aria; contesti chimici, fisici e dinamici, equilibri in relazione tra loro. Di qui viene il nostro benessere e il nostro malessere, in un portato economico molto più vasto del solo denaro. Dipendiamo dalla natura.  L’ideologia di approfittare delle risorse naturali ciecamente è stata imposta di recente alle popolazioni e ha sostituito la precedente educazione, non è stata quella di molte altre economie e popoli, non è stata quella dei contadini di tutto il mondo che al contrario hanno sempre saputo la dipendenza umana dal contesto ambientale. È la pratica del dominio economico ad avere eluso sempre di più dalle sue scelte la considerazione del contesto e delle forze in esso presenti e a farne perdere l’esercizio anche alle popolazioni cresciute con il consumismo. Le ha condizionate alla ideologia della “crescita” facendole rinunciare allo spontaneo raziocinio e alla educazione pregressa, che dice a ciascuno quanto le cose abbiano una misura e debbano essere salvaguardate. Vedere quello che ci sta intorno, riconoscere altre forze dalla propria, altri soggetti con cui si deve mediare è un esercizio che oggi però si rinnova, mosso dal farsi presente dei problemi ambientali, da quelli economici e dalla espansione della popolazione mondiale, anche dal farsi presente delle donne.

Tutto il lavoro che ci anima

La sconsideratezza a proposito delle risorse della natura è la stessa che non alza lo sguardo sul lavoro necessario per vivere che tutti fanno. È un lavoro che produce benessere e relazione, beni domestici e alimentari, sicurezze e interrelazioni. È fatto di mille mansioni a partire dalla disponibilità ad usare tempo ed energie, a lavorare senza compenso economico ne sociale, ad ascoltare le necessità e i desideri. È quel lavoro privato che dona al pubblico l’esistenza. Senza tutti i lavori necessari per vivere che si fanno fuori dal mercato, non c’è né mercato né umanità.
È lavoro che sostanzia l’economia reale di ciascuno, quanto o più del reddito ricevuto e compone le risorse differentemente a seconda dei differenti gruppi familiari. Disuguaglianze e malessere tra le persone dipendono anche dalle caratteristiche degli appartenenti alla famiglia e al gruppo amicale: dalle loro qualità, dall’ampiezza e organizzazione che si danno. L’economia si è sempre appoggiata a questa economia umana che le ha permesso di avere soggetti formati, in salute e relazionati. L’economia è fatta allora anche dal lavoro non pagato, da quello necessario per la propria sussistenza, il proprio decoro e il sostegno quotidiano della vita degli altri con cui siamo in relazione. Il lavoro non pagato è stato quantificato nel mondo e in ciascun paese da organismi istituzionali ed economici (Picchio): occupa più tempo di quello che porta un reddito e il suo valore a livello finanziario è di poco inferiore al lavoro che viene pagato. È fatto quasi tutto dalle donne, il lavoro che riceve un reddito invece è fatto quasi tutto dagli uomini.

Non ripetere i messaggi del potere

In questo ultimo dopoguerra le donne hanno faticato a scoprire che la divisione dei compiti tra maschi e femmine non era né naturale né obbligatoria. C’è voluta tanta voglia di parlare, tra donne, dei propri sentimenti in rapporto all’esperienza che facevamo di ogni norma, così da poter risalire condizionamenti e disvalori e guadagnare la consapevolezza della propria libertà. Il risultato di questa pratica porta alla società questo stesso esercizio ed un altro ancora, più alcune consapevolezze.
La prima è quella di non ripetere i messaggi del potere ma al contrario di interrogarli.  Il potere fa presente ogni giorno quello che gli conviene con tutti gli strumenti della penetrazione: le norme e i media, le pratiche quotidiane e i consumi, la pubblicità e l’esempio degli altri. Ma noi che esperienza facciamo ogni volta di questi messaggi? Dell’esempio degli altri? Delle azioni che compiamo o che altri compiono? Dei significati che le cose ci mandano? Rispondono a nostri desideri? Non abbiamo sentimenti contrari? E ancora: come ci fanno diventare? Dove portano la società?  Si può comprendere quali interessi diversi dai nostri sottostanno ad ogni cosa, si possono scoprire molte falsità. Ad esempio quando ci dicono: “ mancano bambini ” e il mondo scoppia; “ rinnoviamo tutti i beni con nuovi prodotti (meno inquinanti) ” e per farli moltiplicheremmo i rifiuti e gli inquinanti già prodotti; “ automatizziamo ogni lavoro ”, quando le persone hanno bisogno di lavorare sia per guadagnare che per relazionarsi; “ andiamo più rapidi ”, quando la rapidità distrugge i luoghi, il nostro conoscerli e goderli. Si può capire che i potenti non sanno dove andare al di fuori di un immediato tornaconto, non sanno e non gli interessa dove va a finire la società. 

Interroghiamoci
Con il nostro parlare degli intenti e dei sentimenti che proviamo davanti a ciò che ci viene proposto, alle pratiche e alle norme che il mercato o l’insieme dei poteri sociali inducono, nei confronti delle pratiche quotidiane che compiamo e delle consuetudini possiamo renderci più consapevoli, oppure finire con il confonderci se ci adeguiamo nei gesti e ripetiamo i messaggi preformati, perché quello che facciamo e quello che diciamo ci costruiscono nel pensiero e persino nel corpo.
Parlare ed ascoltare serve a capire se stessi e a capire diverse esperienze dalla propria, allarga il nostro sentire e al contempo ci fa riconoscere dimensionati, parziali nella realtà dei molti. Si può ragionare di quello che si fa e capire come ci fa diventare. Si può ragionare rispetto a quello che si desidera e scegliere come diventare.
Disertare la ripetizione, non delegare ma rivedere in proprio il giudizio su ogni cosa è un esercizio che sembra faticoso, per questo tende a spegnersi, più facile è delegare e ripetere quello che tutti fanno, appoggiarsi al discorso già avviato; ma la soddisfazione dell’impegno è più forte: è un godimento che racchiude il senso del sé e di tutto l’esistente; si tratta di averlo a portata di mano. Potrebbe essere una pratica guidata, organizzata abitudinariamente in famiglia, nella scuola per il quartiere, tra amici. È un'opportunità politica. Anche ascoltare gli altri sembra difficile a volte, la paura di perdere il proprio punto di vista crea il bisogno di riaffermarsi ma se si riceve ascolto si prende il coraggio di darlo e da entrambe le azioni si riceve un piacere sentimentale ineffabile. 

Ricongiungere il lavoro tra generi e generazioni

Il secondo esercizio che abbiamo fatto è stato quello di studiare e comprendere il valore economico e sociale di tutti i lavori che alle donne erano stati demandati nel privato e il valore della forma mentale che creano, accompagnato al danno che si origina dall’essere sola ed emarginata nel compierli. Ma non solo: il convivere dei lavori gratuiti con gli altri lavori che si svolgono nell’ambito pubblico e nel mercato, mostra un diverso modo di vivere e anche di lavorare da quello tradizionale dell’uomo: affacciato solo sull’ambito pubblico e dipendente da altri per le relazioni e i compiti che riguardano la sussistenza. La donna che lavora a casa e nel mercato si presenta come nuovo paradigma di lavoratore ma anche dell’essere umano, riporta ciascuno a riconoscere più interessi e capacità in se che non un solo obbiettivo, suggerisce anche agli uomini di allargare lo sguardo con cui si valutano le proprie azioni e le cose.
Oggi uomini e donne possono riconoscersi meno diversi e condividere le pratiche che li avevano differenziati con il risultato di divenire una forza molto grande di fronte al potere perchè con intenti più simili. La cultura prodotta da chi fa più pratiche ed ha più ottiche sulle cose è l’opposto di quella che il potere esprime: quest’ultimo si focalizza su un solo interesse e insegna ad ascoltare una sola esigenza anche di se stessi. Ascoltare più interessi di se e di diversi soggetti costruisce un’altra cultura e un’altra organizzazione sociale. Ci vuole più tempo, ad esempio, da dedicare a tutti i lavori necessari e meno tempo può essere requisito dall’attività che ci assegna un reddito, tutti d’altronde vogliamo essere occupati nelle attività pagate e integrati nel valore delle attività pubbliche, nessuno deve essere costretto alla disoccupazione o alla emarginazione. Occupare tutti a minor tempo, compresi i vecchi, può essere un riferimento collettivo?  

Si tratta però di non ripetere i messaggi del potere anche rispetto alla tecnologia e alla scienza
Qui il discorso si fa molto più difficile perché la tecnologia ci entusiasma: ci diverte il nuovo e l’oggetto da maneggiare, ci fa sentire potenti, ci accomuna. Ci mostra la forza della scienza e della creatività umana perché ce la mette in mano. Così come le gallerie sotto il deserto, inclinate per chilometri, raccoglievano l’acqua che si formava sulle pietre nell’inversione termica della notte e creavano l’oasi. Se quella scienza popolare però dava solo benefici, quello che oggi ci vendono le multinazionali ha molte ricadute dannose. Portare l’attenzione sui danni non fa piacere a nessuno, contrasta il potere di vendere e dunque è una ricerca priva di finanziamenti. Solo il dettato civile e politico può sostenerla, a partire dai danni alla salute per esempio. L’innovazione chimica, fisica, farmaceutica ci fa essere delle cavie perché ottiene di vendersi e diffondersi prima di qualsiasi indagine. Solo con la volonterosa, contrastata ricerca epidemiologica, si arriva dopo molte vittime a dimostrare le nocività, Lorenzo Tomatis in molti libri e articoli spiega tutte queste cose. Sono moltissimi gli aspetti che si possono osservare nel consumo tecnologico e nelle imposizioni istituzionali di strutture e infrastrutture nei contesti urbani o territoriali, come hanno fatto le lotte di molte comunità e associazioni, come fanno studiosi di diverse discipline umane rispetto alle ricadute psicologiche e comportamentali di diversi prodotti e pratiche innovative su adulti e bambini. Si pensi alla perdita di creatività e indipendenza di chi cerca l’intrattenimento e il gioco nella tecnologia invece che con il gruppo di amici, alla dipendenza e insicurezza di chi riattacca il cordone ombelicale con il cellulare, quando nella tradizione proprio la separazione fondava la personalità degli adulti. Per non dire della instabilità degli accordi e delle proprie relazioni nel frastuono dei messaggi sempre rinnovabili.

L’innovazione tecnologica è una continua spesa che si indirizza ai grandi capitali e distoglie risorse da altri possibili impieghi sociali, con l’unico scopo spesso di imporre un modo diverso di fare quello che già facevamo e con una maggiore autonomia dalle macchine, con maggiori competenze e sviluppando capacità personali. Scegliere di farsi servire dalle macchine e desiderare d’essere sempre più comodi invece di fare attività che ci rendono intelligenti può essere uno svantaggio, disimpariamo a leggere una carta geografica, a scrivere e a tenere la matita in mano, o un pennello. Investiremo singolarmente per recuperare nel tempo libero quello che prima ci donavano le azioni quotidiane? Qualcuno ricorda la calligrafia permessa e obbligata dai pennini ad inchiostro? Comperare quello diverso e nuovo dal cartolaio era un piacere differente dal far scorrere le immagini con le dita su uno schermo.

La tecnologia rompe i legami sociali che univano domanda e offerta di servizi per imporci di far tutto in proprio, investire in attrezzature e disoccupare in pratica un numero sempre crescente di lavoratori come è successo ad esempio per le ferrovie. Perdiamo servizi pubblici e collettivi, reti già pagate dai predecessori, sane come lo sono i cavi rispetto alle onde radio, così come abbiamo perso i trasporti collettivi in virtù delle automobili, che ora devono essere demonizzate per quello che hanno fatto. Non praticando servizi collettivi disimpariamo a riconoscerci come comunità.

La tecnologia non ci porta lontano dalle nostre fatiche e responsabilità come forse desidereremmo, mi domando quanto ancora può divenire inquinato il pianeta nell’intento di sostituire tutto l’esistente per renderlo automatizzato. Troppo comodi e troppo potenti diventiamo anche più pericolosi. La potenza deve essere custodita da una volontà plurale e questa ci deve proteggere dalle sciagure, proprio la scienza ci può aiutare a trovare quale sia lo stato delle cose e la direzione che si vuole imboccare, la scienza umanistica prima ancora di quella tecnologica, non certo la potenza che non sa dove andare.
Occupare macchine e disoccupare le persone come sta succedendo, se non vengono distribuiti i redditi che le macchine creano è un processo aberrante, dove si conclude?

Antonella Nappi
Psiche & Natura
Laboratori del Profondo


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