Dalla partecipazione alla democrazia partecipativa (prima parte)

Presentiamo qui un primo momento di approfondimento sul concetto e la pratica della “democrazia partecipativa” ovvero di quel processo virtuoso che mette in relazione costruttiva e creativa il “protagonismo” dei cittadini con i processi decisionali delle istituzioni, specie a livello locale.
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La parola “partecipazione” è diventata recentemente di gran moda nelle pratiche, nei programmi e nei progetti di amministrazioni locali, associazioni e perfino nella vita di molte aziende. Può essere utile - nell’intento a carattere “divulgativo” di queste note - provare a fare un po’ di chiarezza sui diversi significati con cui questa parola viene assunta nei più diversi contesti.

Iniziamo col linguaggio comune, dove partecipazione è parola usata quasi sempre in un’accezione passiva: partecipare a un concerto, a uno spettacolo, a un evento, a una festa non significa altro che presenza, con finalità ricreative, a qualcosa che è stato organizzato da altri. Da notare che questa accezione non vale solo per un contesto privato, perché ad es. “partecipare a un comizio” o a una conferenza riguarda il campo pubblico ma la “partecipazione” può essere egualmente passiva.

Se passiamo al terreno “pubblico”, del sociale e del politico, la tradizione liberal-democratica ha fondato un’idea di partecipazione sicuramente più attiva: partecipazione ha a che fare con l’esercizio dei diritti politici, come la “partecipazione al voto” (democrazia indiretta) e a un referendum (democrazia diretta). Questa idea di partecipazione cioè sta a fondamento della “cittadinanza giuridica”, che si estende anche ai “diritti civili” i quali comprendono i diritti di associazione (partecipare a un’associazione, a un partito), ma anche i diritti di protesta: partecipare a uno sciopero, a una manifestazione è la base di esistenza dei movimenti sociali, ma anche di un’idea di “partecipazione” che, radicata nelle origini stesse del movimento operaio, fa tutt’uno con un principio “rivendicativo”.
Si partecipa non “per decidere qualcosa”, ma “per ottenere qualcosa”.

Avvicinandosi all’idea di partecipazione che a noi interessa di più oggi, cioè di una possibile presenza di cittadini e soggetti sociali con un ruolo di protagonisti attivi e progettuali (“cittadini attivi” si usa dire) nei più diversi contesti sociali, urbani, territoriali, dobbiamo qui ricordare che, storicamente, questa concezione è nata nel corso della seconda metà del XX secolo nell’ambito di un’“urbanistica critica” che ha lontane origini nell’opera dell’urbanista scozzese Patrick Geddes (1854-1932), inventore del concetto di bioregione urbana, e in Italia nelle riflessioni di Adriano Olivetti come primo presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (la “città dell’uomo” come principio di una nuova “comunità”), nell’opera di Giancarlo De Carlo (che realizzò con metodo partecipato il villaggio operaio “Matteotti” di Terni a inizio anni Settanta) e, se si vuole, nell’opera di rigenerazione territoriale e sociale in Sicilia condotta da Danilo Dolci negli anni Cinquanta-Sessanta (il “Laboratorio di Partinico”).

A partire soprattutto dagli anni Ottanta anche le scienze sociali si cimentano su questo nuovo campo che si potrebbe chiamare di “sociologia applicata”; all’inizio, tuttavia, saranno soprattutto le discipline che si occupano in modo innovativo di servizi sociali (psicologia sociale, psicologia di comunità, a partire dalla grande opera pionieristica di Franco Basaglia) a sottolineare l’importanza della partecipazione attiva degli utenti nella soluzione dei loro problemi (pratiche di self-help ad esempio). Ma, via via, lo svilupparsi della sociologia urbana e di quelle dell’ambiente e del territorio, nonché di forme di antropologia sperimentale daranno contributi sempre più importanti a varie dimensioni del problema “partecipativo” (gestione dei gruppi di lavoro, soluzione dei conflitti, tecniche di progettazione partecipata, costruzione di scenari e roading map partecipative ecc.).

Ma in questo rapido excursus storico (su molti punti torneremo in altri contributi successivi) non potrà mancare anche un accenno alle tante esperienze “partecipative” concrete che sono andate moltiplicandosi, almeno nell’ultimo trentennio, in giro per il mondo. Dalle aggregazioni federative di comunità locali nel Sahel sub-sahariano alle forme di “microcredito” – inventate da Muhammad Yunus, “il banchiere dei poveri” – che dal Bangla Desh si diffonderanno un po’ in tutto il Terzo mondo (e non solo); dalle migliaia di comunità cristiane di base in Brasile che sapranno creare forme partecipate di economie locali di dignitosa sopravvivenza, sino ai “bilanci partecipativi” che dal Brasile si diffonderanno, dalla fine degli anni Novanta, in molte municipalità dell’America Latina e dell’Europa. Ne emerge un quadro in cui il Terzo mondo sembra avere un ruolo trainante, tanto che negli anni Duemila diversi Paesi dell’America Latina (Repubblica Dominicana, Venezuela ad es.) si daranno una “Legge nazionale sulla partecipazione” (in Italia, per ora, c’è solo quella del 2007 della Regione Toscana).


(fine prima parte)


Per saperne di più
G. Ferraro, Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924, Jaca Book 1998;
P. Savoldi, Giochi di partecipazione. Forme territoriali di azione collettiva, Franco Angeli 2005 (vi si descrivono, tra altre, le esperienze di Adriano Olivetti, Giancarlo De Carlo e Danilo Dolci);
A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri 2010.



Per conoscere un caso virtuoso di democrazia partecipativa raccontato dai suoi protagonisti, sabato 24 Novembre 2013, presso il circolo ACLI di Via Conte Rosso, il laboratorio di democrazia partecipata ha organizzato un incontro sul tema: "l'esperienza della casa di qartiere e dell'agenzia di sviluppo di San Salvario a Torino"

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