Dalle nove alle nove

Il romanzo di Leo Perutz è la proposta di lettura del mese di marzo per il ciclo “Luoghi letterari europei”. ()
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“Dalle nove alle nove”, uscito nel 1918, è il romanzo che segnò il primo grande successo editoriale di Perutz. Egli lo ambientò espressamente a Vienna, in quella che fu la sua “seconda patria”. Nato a Praga nel 1882, Perutz si trasferì infatti, giovanissimo, a Vienna nel 1901, per scelte legate all'attività della sua famiglia, e lì visse, pressoché ininterrottamente, fino al 1938 quando, a causa dell'annessione dell'Austria da parte della Germania nazista, fu costretto ad abbandonare Vienna in quanto ebreo. Ma quelle origini praghesi ed ebraiche saranno assai importanti per Perutz ed, in particolare, per Perutz come scrittore, perché ne faranno uno dei più significativi rappresentanti di quei grandi romanzieri ebraico-praghesi di lingua tedesca che formeranno il nucleo di quella grande esperienza letteraria che fu la letteratura ebraico-praghese di inizio secolo, di cui Perutz fu partecipe non solo per i rapporti che ebbe - tra l'altro fu coetaneo ed amico di Kafka - ma perché ne assimilò l'essenza.
E, nell'incarnare la duplicità di quelle sue due “patrie”: Vienna realtà sia di vita che intellettuale, e Praga luogo dell'anima e della memoria - nonché per l'attaccamento all' uso del tedesco a cui rimase sempre fedele - Perutz rappresenta uno dei massimi esiti di quella grande cultura mitteleuropea di cui, unendo i diversi influssi di cui fu portatore, egli realizzò, di fatto, una sintesi esemplare. Ora, l'insieme di tutti questi vissuti, esperienze ed influssi avrà, nell'opera di Perutz, una ricaduta che verrà traslata su un piano basato sull'inventiva e sull' invenzione. Perutz è stato infatti capace di portare il suo sguardo inquieto, derivante dall'insieme di quei vissuti di cui si è detto, all'interno di contesti e strutture romanzesche squisitamente narrative. Dove la “logica” della trama convive e si ibrida con l'”illogicità” delle cose e del mondo che Perutz aveva ben presente.
Ciò ha reso Perutz uno scrittore assolutamente “originale”, fuori dagli schemi dei generi e dei canoni, essendo stato capace di creare un mix unico in cui azione narrativa e dimensione esistenziale convivono. Come accade in “Dalle nove alle nove” dove una suspense continua lo rende apparentemente un “giallo”, sostenuto, come esso è, da un ritmo incalzante scandito da un susseguirsi di eventi che mantengono sempre alta la tensione narrativa. Ma dove, in realtà, gli elementi emotivi ed esistenziali, irrazionali ed imponderabili, costituiscono un vero e proprio sottotesto che non viene mai meno e che veicola temi e significati quali quelli di colpa e di libertà, di giustizia e di verità attraverso i quali Perutz mette a nudo come gli inganni e le fatalità dominino l' esistenza umana. In Perutz, infatti, gli eventi padroneggiano la volontà umana e la loro origine non ha giustificazione. Essi sovraintendono il singolo che nulla può per dominarli, svolgendosi inesorabili e incontrollabili. Il protagonista del romanzo, lo studente Stanislaus Demba, sarà infatti vittima di un destino oscuro e imprendibile. E neanche nell' “irrealtà”, in cui per effetto dell' artificio narrativo che, come vedremo, Perutz qui crea, gli sarà data alcuna possibilità.
A fare da sfondo e da contraltare alle vicende di Stanislaus Demba è Vienna la quale sarà, per tutto il romanzo, il suo alter ego, rappresentando qui Perutz la realtà, il quotidiano, il contingente della capitale austro-ungarica di prima della Grande Guerra. Ed è proprio il confronto fra questi due protagonisti – città e individuo – che genera la tensione che pervade il racconto. Demba si muoverà infatti in lungo e in largo per Vienna in una condizione di estraneità rispetto a tutti coloro che incontrerà, i quali non capiranno nulla del suo modo di comportarsi, finendo per apparire un diverso e perciò costretto a vivere in una sua solitudine la situazione nella quale si trova. Perché Stanislaus Demba si aggirerà per Vienna, in quelle fatidiche dodici ore durante le quali si svolge “Dalle nove alle nove”, ammanettato e quindi impossibilitato ad usare liberamente le mani ma, soprattutto, a mostrarle, giacché è sfuggito ad un arresto e, fintantoché non riuscirà a liberarsi da quelle manette, deve nascondere agli occhi degli altri quella sua inquietante e minacciosa condizione. Fra equivoci e assurdità di vario genere nelle quali Demba si verrà a trovare, “inventandosi” escamotage grotteschi e surreali per giustificare il suo modo di fare, la narrazione, in realtà, veicola - dietro i “siparietti” creati da Perutz con abile e beffarda “esattezza” - un senso di ansia e di angoscia per il protrarsi di quel muoversi da topo in gabbia a cui Stanislaus Demba è costretto. Essendo egli condizionato a simulare e dissimulare continuamente ciò che è e ciò che fa.
Nascondere le proprie mani significherà per Demba nascondere se stesso, la propria identità ma anche e soprattutto la propria “innocenza”, che egli vorrebbe affermare ma non può. E ciò non solo rispetto al reato che ha commesso ma soprattutto rispetto alla sua integrità come persona. La colpa di Demba è quella di aver sottratto tre libri preziosi dalla biblioteca universitaria, ma in realtà, così come sono andate le cose, non è stato un vero furto, e comunque non tale da giustificare l'intervento della legge nelle forme in cui si attuerà. Da cui l'impressione di una netta sproporzione fra causa ed effetto. La condizione di Demba diventa quindi quella del braccato da una colpa che va al di là e al di sopra sia di lui sia di quanto egli ha effettivamente commesso. E questa sproporzione diventerà ancor più vistosa e terribile perché quella colpa già in sé modesta diverrà fatale per Stanislaus Demba dato che di essa ne sarà tragicamente vittima. Perché noi non lo sappiamo, dato che fino all'imprevisto e all'imprevedibile finale crediamo di stare seguendo Demba in giro per Vienna, in carne ed ossa, ma in realtà egli non è più un “vivo”. Quello che noi leggiamo egli non lo ha “vissuto” nel senso che non poteva fisicamente più viverlo eppure tutto ciò che gli accadrà e che noi leggiamo è passato nella sua mente in quegli attimi di incoscienza che avevano preceduto la sua morte.
Per sfuggire infatti alle guardie che lo hanno ammanettato, a seguito del suo arresto per quella storia dei libri, Demba si era lanciato nel vuoto. Precipitato a terra, ferito, privo di conoscenza, esce da sé, e resta in quel tempo e in quello spazio che stanno fra il momento di morire e l'essere veramente morti. Ed è in quel tempo e in quello spazio fra vita e non vita che Demba immagina/sogna tutto ciò che noi avevamo fin lì letto e che in realtà era avvenuto nella sua mente prima che i suoi occhi si chiudessero definitivamente. Quegli occhi che fino all'ultimo istante erano stati l'unica cosa che aveva continuato a muoversi di lui e in lui. Ma Demba ha compiuto quel gesto estremo spinto da una paura che in realtà è un bisogno vitale, quello della libertà, consapevole che stava per attenderlo la perdita della libertà. Il vedersi rinchiuso in una cella suscita in Demba una disperazione che lo porta a vedersi privo di futuro, in un vicolo cieco senza via d'uscita, impossibilitato “per sempre” a fare tutte quelle cose che ancora non aveva fatto e che solo da libero avrebbe potuto fare.
Ed è con questo pensiero nella mente che Demba si lascia andare nel vuoto, ed è con questo pensiero che, al momento della caduta, nasce dentro di lui il suo doppio “mentale” che si condurrà per Vienna durante quelle dodici ore (che Perutz ci fa credere che Demba abbia immaginato nella sua mente) le quali, però, diventeranno anch'esse per Stanislaus Demba una prigione perché quello che egli si prefiggerà di fare in quelle dodici ore si trasformerà in una corsa senza tregua, in una illusoria “rivincita” con la vita e sulla vita, del tutto vana. Non solo si prefiggerà di liberarsi dalle manette e riconquistare la normalità e con essa la reputazione ma, ancor più ambiziosamente, di realizzare una sua illusione amorosa. Ma tutto sfuggirà di mano a Demba e non solo in senso letterale: in primo luogo il tempo che incalzante lo assilla, poi la città che freneticamente attraversa, poi ancora le persone che incontra con una fugacità dettata solo dalla necessità, inoltre il denaro che deve trovare per realizzare il suo progetto amoroso, che più volte trova, ma che poi ogni volta gli sfugge e infine anche quell'amore, tanto agognato, che non si realizzerà rivelandosi impossibile.
Ma in realtà è lo stesso testo letterario che si fa sfuggente facendo partecipi anche noi lettori di questa sensazione. E, in ultimo, soprattutto è la vita stessa a sfuggire di mano a Stanislaus Demba, nonostante il suo titanico sforzo di sopravvivere alla sua stessa morte. E così alla fine per Demba sarà la morte, proprio la morte, nella sua definitività, il vero momento della liberazione quello in cui, spezzatesi le manette egli aveva potuto finalmente trovare la pace: “Per la violenza della caduta le manette si erano spezzate. E le mani di Demba, quelle mani che si erano nascoste nella paura, indignate nel rancore, strette a pugno dalla rabbia, inalberate nel lamento...che si erano ribellate con ostinazione contro le catene – le mani di Stanislaus Demba finalmente erano libere.”

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