La Cascina al centro del Quartiere?

Oggi gli slogan di molte, pur lodevoli, iniziative associano alla parola cascina concetti diversi ed estranei. Ma sarebbe bene usare parole e riferimenti culturali con maggior consapevolezza. Una riflessione.

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Ruralistica Edallo 5
In principio era la roncola da disboscatore. Si diradava un tratto di terra da coltivare e quei campi, con gli eventuali edifici di servizio, si chiamavano per convenzione «Ronchetto», col medesimo criterio utilitario e toponomastico di quel classici dell'appoderamento che si chiamano sparsi per tutta l'area padana: Bell'Aria (perché sopravvento), Case Nuove (il primo nucleo), Malpensata (perché in una situazione svantaggiata) e così via.
Per distinguere le componenti del toponimo si dice anche a volte «Cascina Ronchetto», così non ci si confonde coi campi e i fossi che in teoria starebbero tutti insieme nella definizione originaria.

Le parole sono importanti
Perché distinguere è importante, le parole sono importanti come diceva quel popolare regista in una nota battuta. E come non capiva quel tizio che mi capitò di incrociare da esercitatore in un corso di Urbanistica una trentina d'anni fa: faceva lavorare gli studenti sul «territorio rurale» diceva, e scoprimmo, con colpevole ritardo, che quel territorio rurale non usciva mai dalla cascina intesa come edificio, fermandosi al massimo al muro di cinta, sai che insegnamento di urbanistica uno studio dal fienile alla stalla alla cucina del contadino.

Ma oggi pare che quella confusione sia tutt'altro che chiarita, e l'abbiamo visto nella pubblicistica delle recentissime iniziative sulle cascine milanesi, dove pur lodevoli iniziative di formazione, promozione, animazione sociale e ambientale, da un lato trovavano l'ombrello comune di quella parola «Cascina», dall'altro rigiravano il senso del toponimo usandola a definire situazioni senza nulla in comune: dall'edificio totalmente assorbito nel tessuto urbano e indistinguibile salvo appunto alcune forme edilizie residue, al micro-brandello di campagna padana che, pur ovviamente metabolizzato dalla città, ancora conserva simboli e sostanza del proprio passato rurale.

Una confusione tutt’altro che chiarita
In quasi tutti i casi però, oltre quel contenitore mediatico del nome comune di situazioni molto diverse, c'erano anche altre riflessioni a pervadere iniziative e loro promozione: la campagna in città, l'agricoltura come ricongiungimento tra uomo e ambiente, l'alimentazione a km0, gli orti urbani sociali e compagnia bella. Tutte ottime cose, intendiamoci, se non fosse che più di uno ci cacciava dentro a tradimento: la nuova dimensione del quartiere evocata dall'emergenza del virus e della pandemia, la cosiddetta città dei quindici minuti, trovano nella cascina un fondamentale polo di riferimento, culturale, spaziale, ambientale.

E di nuovo: in quale «cascina» un quartiere della città troverebbe il proprio nodo socio-culturale e identitario? Si era su queste pagine ripercorsa la storia secolare della Scuola al Centro del Quartiere proprio per sottolinearne i valori civici, educativi, di consapevolezza, ben oltre l'originaria funzione pedagogica che si integrava così organicamente a tante altre.
Se la «cascina» la intendiamo solo come toponimo, a indicare un nucleo di servizi, e quei servizi possono anche a volte ispirarsi al passato rurale, perché no? Tutto bene, anzi innovativo e ambientalmente virtuoso. Se invece qualcuno – distrattamente o con qualche fastidioso retropensiero – vuole collocare idealmente al centro dei quartieri urbani un simbolo di anti-urbanità, di anti-civismo, per dirla chiatta chiatta un contenitore di «idiotismo della vita rustica» usando la famosa denominazione di Marx, ce lo dica subito. Perché l'ultima volta che ricordo concetti del genere espressi con pervasività scientifica, tecnica e politica, è quando Vincenzo Civico apriva la propria sessione del primo congresso INU col titolo «Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista». E ricordarselo aiuta ad essere un pochino più consapevoli.


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