La città narrata
Se il titolo recita “La città narrata” è il sottotitolo a dare il senso compiuto del contenuto: “Le vie, le piazze ed i quartieri di Milano raccontati dai suoi poeti, scrittori, artisti, giornalisti ed intellettuali”.
L’idea e la cura è di Angelo Gaccione che nella prefazione scrive: “Ci sono luoghi così intimamente legati alla nostra vita e alla nostra memoria, che finiscono per appartenerci definitivamente, e altrettanto definitivamente sentiamo di appartenere loro”.
All’esercizio di memoria partecipano personalità di assoluto spicco della cultura milanese, ognuno portando il proprio contributo di vissuto in un forte legame con la città e i suoi luoghi.
Il poeta Tomaso Kemeny, arrivato a Milano dall’Unghera nel 1948, ricorda la sua infanzia in piazza Risorgimento dove giocava a “tollini” con i suoi amici o spiava dall’esterno gli avventori di una nota trattoria di cucina romana nella quale una volta ebbe modo di vedere Aldo Fabrizi alle prese con valanghe di fettuccine, per concludere “ma la vita di piazza Risorgimento mi ha lasciato una melodia, ‘un allegretto con moto’ che non cessa, neppure nei momenti di malinconia più tetra, di ‘molcirmi lo cuore’ “.
Una Milano che naturalmente non esiste più.
Lo scienziato Germano Marchetti ricorda i cascinali detti “Le quattro Acquabelle” circondati da campi coltivati, marcite e boschi in quella zona che oggi è piazzale Susa e nei primi del ‘900 era aperta campagna.
Ricorda anche la costruzione della chiesa intitolata alla Santa Croce in via Sidoli (i lavori iniziarono nel 1913) e l’esistenza del campo di calcio dell’Ambrosiana, scomparso nel 1930, collocato tra corso Plebisciti e le vie Ceradini e Goldoni.
Il filosofo Fulvio Papi è invece particolarmente legato a Lambrate e a Città Studi dove viveva, negli anni ‘30 del secolo scorso, in piazza Donegani. Da lì, attraversando un prato e un ponticello di legno su un ruscello, andava a scuola in piazza Leonardo Da Vinci e scrive: “Al termine del corso di studi, alla vigilia della guerra, la scuola mi congedò con una bellissima fotografia dell’edificio che recava un proposito:’ perché tu ricordi sempre la tua Leonardo dove hai imparato a credere a obbedire e a combattere per vincere sempre’ “.
Ma annota ancora Papi:” Suppongo di aver deluso questa aspettativa”.
Lo scrittore Ferruccio Parazzoli ci intrattiene su piazzale Loreto che, visto dall’alto, sembra essere : ”Un polipo gigante con otto tentacoli…”. Alcuni di questi tentacoli (Abruzzi, Buenos Aires, Doria, Costa e Porpora) ci competono.
E ci gratifica di citazioni secondo cui:” Gli imperatori di casa Asburgo, scendendo da Vienna per prendere possesso della città, amavano sfilare in corteo dal Rondò di Loreto lungo tutto il corso Loreto per poi giungere in Duomo per il corso di Porta Orientale”. Va da sé che il corso Loreto è l’odierno corso Buenos Aires e il corso di Porta Orientale è corso Venezia.
E forse è anche noto che il toponimo Loreto lo si deve alla chiesa dedicata alla Madonna di Loreto, edificata nel ‘600 per volere del cardinale Borromeo dove oggi esiste piazza Argentina.
E di viale Loreto parla anche Silvio Pellico dove, dice, :”…provai i più dolci e tormentosi sentimenti”.
Insomma corso, viale, stradone che siano sono per noi l’attuale, vivacissimo e trafficatissimo corso Buenos Aires…
E Parazzoli chiude il suo intervento con un'altra citazione: ”Proprio all’incrocio tra le due vie principali (le attuali via Porpora e viale Monza) sorse nei primi anni del secolo (scorso, n.d.r.) un funzionale albergo con annessa osteria: esso forniva a che giungeva a Milano dopo viaggi spesso lunghi e spossanti l’opportunità di ristorarsi e di riassettarsi per entrare poi con dovuta rispettabilità in città”.
Un altro cittadino illustre, Giuseppe Pontiggia, descrive affettuosamente la via in cui ha vissuto per molti anni. Via Farneti “è una via che viene giudicata silenziosa da chi non ci abita…Ora lunga e stretta, ora breve e stretta. Mai larga. Si vede che le vie cambiano di dimensioni secondo i significati che vi proiettiamo”.
E ancora: “Nella via ci sono (c’erano n.d.r.) botteghe di cartolai, di falegnami e di parrucchieri, negozi di tappeti e di arredo, salumerie, tabaccherie, bar, gelaterie. Mio figlio, più socievole di me, li conosce tutti, anche perché fa soste e spese periodiche utili ai rapporti”.
Ricca di suggestioni è la testimonianza del poeta Giovanni Raboni che ha abitato sino alla fine dei suoi giorni in via Melzo. Afferma, nell’esordio, “di essere cittadino milanese, ma anche, in particolare, un cittadino di Porta Venezia”. Forte di questa dichiarazione, ricorda le scuole elementari frequentate in via Casati e la vitalità rassicurante, anche e soprattutto di notte, di corso Buenos Aires. Ricorda la demolizione del Lazzaretto negli anni ’20 del secolo che fu, primo esempio di grande speculazione edilizia milanese.
“Una Banca ha comparo il ‘Lazzaretto’, l’hanno demolito ed è sorto un intero quartiere”.
E poi le bellezze architettoniche della zona, la casa Galimberti di via Malpighi e la palazzina liberty di via Frisi che ospita la Biblioteca Venezia, che prima era malamente collocata presso i caselli del Dazio di Porta Venezia. Ricorda l’apertura di Spazio Oberdan (1999, n.d.r.) che oggi ha già chiuso inopinatamente i battenti, rievoca i nomi dei poeti che hanno abitato nella nostra zona come Vittorio Sereni, Giuseppe Pontiggia, Clemente Rebora e Giovanni Giudici.
E, infine, dice di se stesso:” Son un poeta non solo milanese, ma di Porta Venezia”…
E chiude in questo modo il suo contributo:” In piazzale Loreto, da ragazzo, ho visto passare la Storia in persona. I carri armati tedeschi, ho visto, e i quindici antifascisti fucilati, buttati in un mucchio, e ho visto Mussolini due volte, la prima volta in auto, trionfante, applaudito, e la seconda penzolare appeso alla tettoia del distributore di benzina, ho visto i carri armati e i cortei delle grandi manifestazioni, le bandiere…”.
Siamo alla fine di questo esercizio di memoria stimolato dal bel volume curato da Angelo Gaccione che è un vero e proprio atto d’amore per Milano, le sue case, i suoi abitanti.
Il volume in copertina ospita un’illustrazione tratta da “Città italiana” proprio di Emilio Tadini a cui, nel suo intervento, si deve un monito più che attendibile. Perdere la memoria è come perdere se stessi.
Angelo Gaccione
La città narrata
viennepierre edizioni, 2002