Un amore

Il romanzo milanese di Dino Buzzati è il protagonista per il mese di gennaio del percorso di lettura sul tema “Luoghi letterari del '900 italiano” a cura di Raffaele Santoro. ()
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“Un amore”, pubblicato nel '63, è l'ultimo romanzo scritto da Buzzati e si colloca a ventitré anni di distanza dall' “uscita” de “Il deserto dei Tartari” avvenuta nel '40. Ma, a differenza della prosa elegante e misurata, rarefatta e quasi magica, che Buzzati aveva impiegato ne “Il deserto dei Tartari”, fa riscontro, in “Un amore”, il più esplicito realismo che spoglia la materia trattata senza pudore e senza pudori. Una materia inedita per Buzzati, scabrosa e “spinta”: quella di una passione amorosa bruciante e ossessiva, narrata a forti tinte e in modo spregiudicato. Dove non solo l'attrazione e il desiderio sono esplicitati ma divengono, nel corso del romanzo, un tormento carico di angoscia.

“Un amore” è la storia dell'impazzimento d'amore del protagonista: l'affermato e maturo architetto milanese Antonio Dorigo, per una ragazza molto più giovane di lui - la ventenne Adelaide Anfossi che, con l'allusivo diminutivo di Laide sarà chiamata per tutto il romanzo - che è una prostituta, o meglio, che è anche una prostituta. Laide infatti conduce una vita parallela, essendo quello della prostituta una sorta di secondo lavoro, svolto in modo segreto e clandestino, dato che “ufficialmente” Laide è una ballerina del corpo di ballo della Scala. Tuttavia quella seconda vita occupa non poco Laide, che la svolge senza turbamenti e conflitti, in modo disinibito e navigato. Ed è proprio fra le quattro mura della casa di appuntamenti che Dorigo frequenta, ovviamente anche lui in modo clandestino e, anche lui, senza implicazioni morali o psicologiche, che avviene l'incontro con Laide e l'inizio della loro storia che si rivelerà fatale, innescandosi una dinamica perversa e distruttiva di cui Dorigo sarà vittima a causa di quell'innamoramento che lo travolgerà. Giacché quell'innamoramento da Laide non sarà corrisposto, non concedendosi ella affettivamente, pur continuando a concedersi a Dorigo fisicamente e “mercenariamente”. L'asimmetria, con Dorigo dominato e Laide dominante, diverrà da subito il leitmotiv di una relazione che nella sua contorta e distorta dinamica si evolverà via via in un legame che ingloberà entrambi.

Laide, approfittando dell'innamoramento di Dorigo che lo rende debole e acquiescente, detta i tempi e i modi di quella relazione, iniziando ad utilizzare Dorigo come suo cavalier servente, stabilendo il quando e il come vedersi. E Dorigo, pur di starle vicino, pur di poterla stringere a sé, accetta e subisce quelle condizioni per lui dolorose e frustranti. Ma a sua volta Laide, così facendo, finisce comunque per alimentare e tenere viva quella relazione. Ella infatti non allontana da sé Dorigo, non ne fa una presenza marginale ma, al contrario, lo cerca e lo attira se pur nei termini che ella stabilisce e decide, costituendosi, di fatto, una sorta di doppio legame in quanto non più solo Dorigo ma anche Laide giocherà un suo ruolo ed avrà delle sue motivazioni. E, in questa situazione, si genererà in entrambi un doppio vissuto. Alla prevalenza dell'amore per Laide faranno riscontro in Dorigo reazioni di rigetto verso Laide, sebbene per lo più interiorizzate e inibite dalla paura di perdere Laide, la quale, a sua volta, al manifestato disinteresse affettivo e al rapporto utilitaristico verso Dorigo unirà la propensione a “stare” con Dorigo e a concedergli una sua parte di intimità.
E, nel concedere a Dorigo quell'intimità, Laide si concede la possibilità di esprimere quelle parti di sé che tende a comprimere, nascondendole sotto quel cinismo che di solito esterna. Quelle parti che ne fanno ancora, per molti aspetti, una “bambina” con le sue ingenuità e con la sua residua innocenza, capace, come ella è, di apparire forte essendo anche fragile, di essere altera essendo ancora infantile, di essere insieme donna e bambina Vi è quindi in Laide una pluralità di volti che la rende attraente e seduttiva ma anche, e soprattutto, elusiva, in una commistione di ruoli e di atteggiamenti in cui i confini fra amica, amante, mercenaria, ma anche nemica, si confondono di continuo. Dorigo quindi si trova invischiato in un legame che lo ingabbia che va ben oltre l'attrazione sessuale, finendo per essere attratto proprio da quella vitalità intensa ma anche oscura, ricca e misteriosa, che fa di Laide una fonte di vita e, al tempo stesso, un'entità perturbante non priva di una sua purezza.

Ma è proprio quell'irraggiungibilità di Laide che alimenta l'attrazione di Dorigo e reitera il suo desiderio. E' quella infinita attesa che Laide diventi sua che riporta sistematicamente Dorigo da Laide, anche quando, esasperato, tenta di troncare. Ma Laide irraggiungibile com'è non farà che produrre e generare nient'altro che attesa: l'attesa di una felicità destinata a restare inafferrabile la quale finirà per riempire un vuoto, dando in questo modo a quel vuoto un senso. Quell'attesa si rivela quindi esistenzialmente potente dando a Dorigo quell'impulso ad andare avanti. E così se per l'irraggiungibilità di Laide la vita gli sfugge rincorrendo Laide egli vive una sua tensione come quella di un miraggio che mai si afferra eppure si è comunque spinti a inseguire e raggiungere. Perché Laide resta per Dorigo una sfinge, sfuggente ma che si cerca in tutti i modi di penetrare.
E anche la città, cioè Milano, ha in “Un amore” questo duplice volto, dove alla frenesia e al movimento della realtà esteriore fa riscontro una realtà interiore cupa e misteriosa, equivoca e tetra. E Laide ne è l'incarnazione ricomprendendo in sé quella doppia natura che è anche la sua natura: “In lei, Laide, viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente.” La città diventa quindi un simbolo, una metafora di una condizione estraniante ed atomizzata, venendo descritta come uno “sterminio di formiche frenetiche”. Fino a diventare luogo labirintico e claustrofobico nella descrizione di quel coacervo di vicoli e meandri che, ignoti e dimenticati, sembrano esprimere, nella loro irrealtà, un'anima nera e segreta: ”In corso Garibaldi durava ancora ostinata...un'isola ancora intatta. E fra il numero 72 e il 74 c'era un passaggio sormontato da un arco, una specie di porta che immetteva in uno stretto e breve vicolo. C'era anzi una targa in pietra in cui era scritto: Vicolo del Fossetto. E' così angusto l'ingresso della minuscola strada che la maggioranza dei passanti non se n'accorge nemmeno. Ma, dopo otto nove metri, il vicolo si allarga in una specie di piazzetta contornata da edifici decrepiti. E' un angolo dimenticato, un labirinto di viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette dove si annida ancora una densa vita. Lo chiamano. chissà perché, la Storta”.
E come la città anche Dorigo si attorciglia sempre di più nei suoi meandri interiori, alla disperata ricerca di una salvezza. Ma attendere Laide o che qualcosa con Laide succeda significa comunque vivere, mentre non avere più niente da attendere e da attendersi è la fine di tutto, è solo il vuoto e quindi la morte. Ed è questa la metafora e il senso profondo di “Un amore”. L'attesa, pur con tutte le sue angosce, è il movente di Dorigo per allontanare ed esorcizzare la morte. Raggiungere Laide e quindi la felicità è impossibile, ma perdere Laide toglie ogni speranza e con essa ogni impulso vitale come egli stesso riconosce allorquando se ne allontana tentando di “lasciarla”: “...c'era la speranza e le stesse lotte quotidiane, le attese i palpiti le telefonate riempivano l'esistenza era una lotta insomma una manifestazione di energia e di vita adesso non c'è più niente”. Procrastinare l'attesa significa quindi sfuggire a questo scacco. Perché per Buzzati la vita stessa è una lunga attesa, alla fine della quale vi è inesorabile la morte, ma senza quell'attesa non è dato vivere. E cercare di raggiungere ciò che ci diamo come oggetto della nostra attesa è l'aspirazione che dà a quell'attesa senso, pur nella consapevolezza che quell'aspirazione non è assolutamente certo che sarà raggiunta o che sia raggiungibile.

Così in “Un amore” sarà l'apparizione del simbolo della morte impresso in quella nera torre che si affaccia come una visione di fronte a Dorigo quando ormai la sua di attesa, quella di Laide, è finita che decreterà il suo destino: “Della terribile torre...si era completamente dimenticato...Adesso era lì di nuovo si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Si l'amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte.” Quella funesta apparizione della torre segnerà la fine della narrazione ma anche la fine dei tormenti di Dorigo. Ma, ancora una volta, sarà Laide a determinare il destino di Dorigo. Il suo distacco da Laide, la sua fuoriuscita da quel meccanismo perverso, saranno infatti la conseguenza del distacco e della fuoriuscita di Laide che, diversamente da Dorigo, trova un suo riscatto, una sua salvazione e si dà a sua volta una sua attesa nel segno della vita. Laide risale dal fondo di quelle basse passioni di cui è stata partecipe e ritrova quel suo fondo di purezza che le appartiene e che le sopravvive, avendo scoperto di essere incinta e decidendo di vivere quella sua maternità. Come inesorabile avanza la morte, altrettanto inarrestabile pulsa la vita, in una circolarità dettata da ciò che vi è di più assoluto: il continuo alternarsi di vita e morte. Se in Antonio Dorigo il ripresentarsi dell'idea della morte segnerà quindi la fine della sua attesa e, con essa, della sua vita, Laide si troverà invece, nel pieno della sua attesa, dentro l'inizio di una vita e della vita.

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