L'iguana

Per il ciclo di letture “Quella ‘fantastica’ letteratura. La letteratura del fantastico tra ‘800 e ‘900” a maggio Raffaele Santoro propone un romanzo di Anna Maria Ortese. ()
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“L'iguana” è un romanzo di perlacea bellezza avendone di una perla la stessa lucentezza e lo stesso splendore ma possedendone anche la stessa opaca e misteriosa anima. Risplendente nelle forme fino ai limiti del barocchismo - di un barocchismo elegante e fastoso nelle sue continue e fantastiche creazioni - “L'iguana” è un romanzo che si cela aprendosi a sempre nuovi misteri, in un continuo anelito alla trasformazione, ma anche alla moltiplicazione dei significati e delle identità.
Pervaso da atmosfere seicentesche pur svolgendosi in un luogo che nella sua illusoria realtà è intimamente mentale e fantastico, “L'iguana” è tutto immerso in una ambigua evocazione di un che di ispanico e di lusitano, a partire dai nomi dei luoghi: l'isola di Ocaña che è teatro prima ancora che luogo dell'azione, fino ai nomi dei protagonisti: il conte Aleardo che in forza di quella sua casata “per due terzi svizzero iberica” risponde in realtà al nome di “Don Carlo Ludovico Aleardo di Grees, dei Duchi di Estremadura-Aleardi” detto familiarmente “Daddo”; e poi il marchese Ilario e cioè “don Ilario Jmenez dei marchesi di Segovia, conte di Guzman”; i suoi fratellastri “Hipolito e Felipe Avaredo-Guzman”; l'iguana altresì nominata Estrellita.
Perché ne “L'iguana” è come se tutto si svolgesse nell'irreale sospensione di un sogno, in un altrove lontano e dissipato che stravolge regole e canoni impedendo, del romanzo, qualsiasi rassicurante e omologante classificazione. Ed è proprio questo suo essere romanzo di confine e al confine di tutte le cose - posto al limitare di ciò che è reale ma anche di ciò che è irreale, finendo per oltrepassare sia l'idea dell'uno che dell'altro - che fa de “L'iguana” quel romanzo assolutamente altro e oltre che sin dal suo apparire, nel 1965, esso risultò essere.
In tal senso si pensi al connubio tra umano e animale incarnato proprio da l'iguana-Estrellita la quale assume dentro il romanzo varie identità: è vecchina, giovinetta, serva, principessa, amante, pur restando al tempo stesso animale e quindi va al di là di della differenza tra umano e animale e diviene altro da ciò, cioè si fa creatura in tutta la pluralità di significati che questo termine ha. E, come dell'animale ne mantiene le fattezze, ella, al tempo stesso, parla e si esprime, si atteggia e si rivela né più né meno come se umana fosse.
E quel connubio è anche nel rapporto tra l'iguana e gli umani nel momento in cui entrambi patiscono e soffrono, trepidano e amano allo stesso modo. Laddove, volendo riportare “L'iguana” ad una delle sue varie possibili letture e cioè quella della favola, l'iguana è come la fanciulla innamorata delle favole divenuta prigioniera di un incantesimo maligno a cui è sottomessa, che l'ha ridotta in cattività. E Aleardo che di lei si innamora e con lei vuole partire è il cavaliere che la vuole liberare. Solo che l'iguana, che pure patisce tutte le sofferenze di quell'incantesimo, però non riesce più a provare lo spirito amoroso che pure aveva conosciuto, incarnando quindi sia la vezzosa fanciulla che è stata che la miserevole e infelice “Iguanuccia” che adesso ella è. E Aleardo nulla potrà per sciogliere quel nodo e realizzare il sogno e il desiderio.
“L'iguana” è quindi anche un romanzo sull'inappagamento del desiderio, sulla sua ricerca vana e inconclusa, sul perseguimento di una liberazione e di una pienezza dilazionate da un destino arcano e sfuggente. Una ricerca della felicità disattesa da un disegno imperscrutabile, straniante e perturbante. I personaggi sono infatti in una loro perenne e persistente trasognatezza che è cifra del loro carattere ma anche dolente condizione a cui sono assoggettati. E' come se un oscuro e misterioso sortilegio avvolgesse uomini e cose e li tenesse a sé legati, sottoposti ad un incanto che è anche una maledizione. E pur tuttavia stando sempre dentro un alone poetico che toglie peso e gravità e tiene sospesi in un'eterea levità.
In questo senso la Ortese è una grandiosa creatrice di trame poetiche, la sua prosa è fatta di ritmi ipnotici i quali sprigionano incessantemente moventi emotivi. Al formarsi di un'immagine succede ben presto il suo inesorabile appannarsi ed opacizzarsi, le cose appaiono e scompaiono, non hanno la forza della sostanza ma sono materia in continuo movimento che traslucida si forma e si deforma, si svela e si vela in una sua unica e persino sensuale imprendibilità.
Pervaso da innumerevoli metafore e simboli, “L'iguana” si fonda narrativamente su un viaggio per mare che da reale ben presto diviene straordinariamente simbolico mutandosi in un'esperienza dell'anima prima ancora che fisica. In una progressione di scoperte e di epifanie che ci portano dentro una serie di realtà su cui aleggia costante e di continuo l' interrogazione su cosa quelle realtà sono, quale senso esse hanno, a cosa conducono dietro lo spaesamento che il loro apparire suscita.
Perché: “...non si tiene conto che il reale è a più strati, e l'intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l'ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione” fa dire la Ortese ad Aleardo. E da questa immaginazione siamo subito avvolti allorquando Aleardo, nonché Daddo, approda ad Ocaña, che è isola misteriosa in quanto non menzionata nelle carte e per questo forse del Diavolo, e ne incontra i suoi enigmatici abitatori che gli suscitano quella strana impressione e cioè “che si tratti di gente impietrita”: don Ilario, i suoi fratellastri e, naturalmente, l'iguana.
La quale però ad Aleardo, lì per lì, era sembrata essere una “vecchia” ma che, a ben vedere, con sua grande sorpresa, scopre “che quella che egli aveva preso per una vecchia, altri non era che una bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembiuletto fatto di vari colori...Una delle sue verdi zampette era fasciata, e con l'altra, sospirando intensamente, essa si sforzava invano di tirare su dal pozzo un grosso secchio. Immediatamente il Daddo, con quello spirito di cavalleria che lo rendeva così amabile,..si precipitò accanto alla bestia, che gli levò in volto due occhietti supplichevoli e fantasticanti, mormorando – mentre il conte prendeva lui il secchio: “Grazie, o senhor! Grazie!”.
Costei, l'iguana, giovane eppure al tempo stesso vecchissima, verde e rugosa, con i suoi occhi tristi e dolci, incarnerà tutte le creature sofferenti - suscitando un commovente sentimento amoroso in Daddo - vittima come essa è di quel trio di signori portoghesi decaduti che sono i suoi padroni e che la considerano invece figura del Male e, come tale, la trattano. E in ciò vi è uno dei grandi temi de “L'iguana” e cioè quello della perdita, che è la perdita dell'innocenza e con essa dell'amore, essendo questo il vero Male. E nel farci vedere ciò la Ortese ci fa vedere quelle seconde nature in cui gli uomini precipitano, preda di un inesorabile disincanto, immiseriti in un utilitarismo che, come un ineluttabile processo di degenerazione, diviene l'unità di misura di tutte le cose.
E pur tuttavia qui, come negli altri suoi libri, la Ortese riesce sempre a declinare questa sua “visione” che è politica, esistenziale, etica e utopistica attraverso l'incantamento, da cui quel senso di “cupo incanto”, di “doloroso splendore”, di “crudele dolcezza” che emana la sua scrittura. Perché la Ortese ha il dono e il sentimento della compassione che prova e che trasmette anche a noi. E a suscitarla, la compassione, è quella creatura dell'“Iguanuccia” resa tristissima e cupa da quella condizione di serva in cui è stata gettata, nella quale vive offesa e vilipesa. Ma ciò così non era. Ella era stata amata e adorata da don Ilario che adesso la tratta con fredda estraneità lasciandola alla mercé dei suoi rozzi fratellastri.
Accade infatti che don Ilario, un giorno, perde quell'incantamento che lo legava amorevolmente all'iguana e uccide in se stesso quell'innocenza e quell'amore che lo volgevano al Bene e si convince che è il Male che governa il mondo, ripudiando l'iguana, considerata, da quel momento, anch'essa fonte ed espressione di quel Male. Ambivalente ed elusivo don Ilario non confessa e non confesserà ad Aleardo, che glieli chiede, i motivi di quell'improvviso disinnamoramento. Ma, a noi lettori che li veniamo a sapere, essi rivelano come quella mescolanza con l'iguana appare da un certo momento impossibile per don Ilario, pur penando e soffrendo egli stesso per quel suo voltafaccia. E ciò in quanto il tabù insito in quella mescolanza non si poteva più coniugare con quella imminente “normalizzazione” che sulla sua condizione di nobile impoverito incombeva per poter stare al mondo e alla quale era stabilito che egli si adeguasse come gli era stato preannunciato da certe lettere da lui ricevute da emissari della sua famiglia.
Aleardo, lì giunto, si troverà così a fronteggiare quell'oscuro mondo che gli sfugge al quale vorrebbe affratellarsi ed unirsi ma che gli resta estraneo e ambiguo, in primis per quell'ambivalenza di don Ilario tanto angelico e sognatore quanto falso e manipolatore, tormentato eppure inamovibile. Doppio persino nel nome, apparendo, all'improvviso, un altro suo nome: quello di Jeronimo Mendes, “...ché tale, e senza alcuna spiegazione, per cui nemmeno noi ne daremo, si rivelò il più profondo nome del marchese”, ci dice la Ortese. Laddove, in questo sdoppiamento del nome, vi è tutta la parabola del suo snaturamento essendo don Ilario, così come egli si presenta all'inizio, un fine letterato, mentre con il nome di Jeronimo Mendes incarna il ricco affarista che egli diverrà alla fine.
E questi continui mutamenti che Aleardo constaterà susciteranno in lui oppressione ed angoscia perché, come un'eroe senza macchia, egli è animato da uno spontaneo candore che lo rende limpido e diverso da quel mondo. Aleardo è infatti mosso da una connaturata bontà, pura e disinteressata, e quel mondo enigmatico e misterioso lo stordisce e lo ferisce ma anche lo assoggetta e lo cattura. E anche lui si innamora dell'“Iguana-Estrellita”, innamorandosi dello struggimento, della ferita, dell'oppressione che lo sguardo tenero e disperato dell' “Iguanuccia” gli trasmette, perché proprio in quell'essere stata amata e ripudiata è la sua grazia e quella pietà che lei ispira scioglie il cuore di Aleardo e lo spinge a volerla salvare. Ma l'iguana si rivelerà refrattaria e indifferente, alienata e immiserita in quella e da quella sua condizione di sottoposta. Aleardo le offre di partire con lui e di sposarla ma Estrellita si atteggia in modo estraneo, appare amorfa, rinchiusa in suo mondo imperscrutabile e oscuro.
Insomma l'amore di Aleardo non è ricambiato e l'iguana, ridotta, come essa è, allo stato di oggetto, appare ormai testardamente tesa solo alla sopravvivenza e alla conservazione. Aggrappata, come fosse un vero tesoro, a quelle sue piccole pietre tonde che gli danno come salario e che ella custodisce e contempla gelosamente. Un grottesco e crudele simbolo di quella mercificazione e di quell'oppressione di cui l'iguana è vittima ma anche unico mezzo che le resta per dirsi che qualcosa è suo e le appartiene. Ma in ciò l'iguana è emblema di quello che ogni essere diventa quando è assunto come bene economico, considerato cioè unicamente per il suo contenuto di utilità. Laddove il meccanismo stesso finisce per condurre alla sua accettazione, inducendo ad adeguarsi ad esso, venendo tutto riassorbito in quella mediazione dell'utilità che diventa essa stessa la condizione dello stare sulla terra.
Non a caso si susseguono nel romanzo riferimenti alle imperanti regole del mercato, all'industria turistica di massa, alle logiche dominanti nel mercato editoriale e lo stesso viaggio per mare di Daddo nasce da un movente economico essendo Daddo da sua madre – spregiudicata e avida immobiliarista milanese – mandato a cercare isole da comprare per poi “costruirvi case e alberghi”. E' insomma quella mercificazione del mondo a cui tutto è ridotto. Ma come un'eccezione che conferma la regola il Daddo, pur prestandosi a quelle richieste materne, “Di ciò in realtà non sembrava importargli granché...indifferente, in fondo, a tutti gli averi, come se il senso delle cose fosse un altro”. E Daddo resterà l'unico infatti estraneo a tutto questo, fedele a se stesso, alla sua autenticità e alla sua purezza, incapace di non essere tale.
Perché se l'iguana-Estrellita ormai esiste solo in quanto “oppresso”, se don Ilario ha definitivamente perso la sua innocenza e la sua capacità di amare finendo per “normalizzarsi” attraverso quel matrimonio combinato in cui scambierà il prestigio, se pur decaduto, del suo blasone con le ricchezze di quella giovane americana la quale sbarcherà ad Ocaña con padre e madre classicamente yankee al seguito, nonché avendo con sé un prelato, un chierico e una domestica negra, in una sorta di apoteosi delle convenzioni sociali e religiose dominanti, sarà solo Aleardo a restare al di sopra e al di fuori di tutto.
Sacrificandosi infatti per salvare Estrellita da quel suo “falso o vero (Dio solo può giudicare) tentativo di suicidio”, Aleardo affermerà e manterrà quella sua diversità di essere buono, capace fino all'ultimo di amare e basta. Ma la sua fine è, a ben vedere, l'unica possibile, data la sua totale estraneità verso ciò che lo circonda, essendo Ocaña e i suoi abitatori “caduti” definitivamente sulla terra, privi ormai di qualsiasi straordinarietà. La morte di Aleardo è conseguenza quindi della sua diversità che si esprime nella sua capacità di non farsi contaminare dalla spoetizzazione del mondo con tutto ciò che di violento essa porta con sé.
E se quella tensione di Aleardo verso il ripudio dell'ingiustizia, quel suo ostinatissimo amore per il bene non salveranno l'iguana, nel senso di sanare le sue ferite e di farle conquistare una sua libertà e una sua liberazione, tuttavia non saranno stati vani. Infatti, alla fine del romanzo, quello strano e arcano mondo di Ocaña è ormai scomparso per sempre, ma non l'eredità lasciata da Aleardo. Don Ilario ormai ricco e lontano viveva “In questa speranza, di ritrovare un giorno il conte, e un mondo più disinteressato, e in ciò egli trovava la pace”. L'iguana dal momento in cui Aleardo muore assume le sembianze di “una donnina...assai piccola, assai buffa, assai povera”, a segnalare una metamorfosi da animale a umano, in quanto inizio di una metamorfosi ben più profonda e cioè da natura a spirito e, con essa, dall'oppressione all'espressione. L'iguana e i due Guzman infatti, rimasti sull'isola, “imparavano a leggere e a scrivere, molto faticosamente, ma aiutandosi, vicendevolmente, con molto amore. Erano sicuri, così,..di essere in grado, un giorno, d'indirizzare qualche missiva al Conte, della cui immortalità erano certi” e arriveranno persino a scrivergli un “invito” in forma di versi a lui rivolto con cui si conclude il romanzo.
E se il senso di quello scrivere sta tutto nella morte di Aleardo e nell'amore da lui ricevuto che anche i Guzman, ci dice la Ortese, nel loro intimo riconoscevano, esso tuttavia è anche l'unica possibilità per salvare - in chi ha subito l' ppressione e il dolore come l'iguana, ma anche per chi è stato oppressore come i Guzman - se stessi, andando oltre quelle loro reciproche condizioni e uscendo dai vicoli ciechi di quelle loro esistenze senza speranza. Lo sviluppo della parola attraverso gli atti del leggere e dello scrivere diventa infatti la chance attraverso cui esistere e vivere, per impossessarsi di un senso e nutrirsene. In una sua intervista del 1977 la Ortese aveva detto: “Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. E’ tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando – per ragioni pratiche – è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. E’ un povero, e rende la vita più povera”. Ed è questo valore della parola che la Ortese offre e affida a questi suoi personaggi, restituendo loro la possibilità di una metamorfosi positiva per non essere più quella “gente impietrita” che era apparsa ad Aleardo quel lontano giorno in cui era arrivato a Ocaña.

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