2018: un anno di cinema al cinema

Una veloce carrellata su un anno di cinema. Senza infamia e senza lode? A ciascuno il suo…giudizio. ()
visages villages immagine
Qualche riflessione a margine dei film che nel corso del 2018 sono approdati sui nostri schermi, tra conferme, sorprese e delusioni più o meno cocenti.

A gennaio arriva “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin Mc Donagh che deve alla ruvida grazia di Frances Mc Dormand un notevole successo di critica e di pubblico, come suol dirsi.
Al centro del dramma, la solita provincia americana retriva e conservatrice per la cui redenzione non basta certo un buon film di impegno civile. Oscar all’interpretazione alla Mc Dormand più che meritato.
Sugli schermi a gennaio anche il controverso “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino, drammone romantico ambientato in un’immobile e calda pianura padana. Voci contro e voci a favore come si addice ad argomenti che fanno discutere.

Una battaglia di civiltà caratterizza “The Post” di Steven Spielberg dove è il gioco, allora come ora, la libertà di stampa. Per quanto scontato nei presupposti e nello svolgimento va da sé che l’argomento appassiona. Perfetta Meryl Streep a cui fa da spalla di lusso un sobrio Tom Hanks.
Torna Paul Thomas Anderson e, con “Il filo nascosto”, si misura con una vicenda barocca di amore e creatività. Godibile per la ricostruzione degli ambienti e per l’interpretazione degli attori, tra cui l’encomiabile Daniel Day-Lewis forse alla sua ultima comparsa.

Destinato a vincere i due Oscar più importanti (film e regia) sorprende la favola gotica che Guillermo Del Toro confeziona abilmente in “La forma dell’acqua”. Capolavoro? C’è da discutere e da dividersi. Piace comunque l’elogio della diversità in una visione della realtà (o dell’irrealtà?) di segno buonista.
Sfiora il capolavoro invece il bellissimo documentario “Visages, villages” di Agnès Varda e del fotografo di strada JR. Un film appunto sulle strade di Francia a distribuire con grazia arte e creatività. Intelligente e godibile.

Intorno al mese di marzo, meritano sicuramente una citazione l’israeliano “Foxtrot” di Samuel Maoz, puntuale riflessione sulla morte, e “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker, quasi una favola interpretata da tre ragazzini terribili nel contesto del sottoproletariato (si sarebbe detto tanto tempo fa) targato USA.
Esemplare il racconto dell’ungherese Ferenc Török in “1945”, in cui la Storia, quella con la S maiuscola, si misura con le piccole storie di uno sperduto villaggio alla fine delle seconda guerra mondiale. Dignità e miserie umane a confronto in un esplicito bianco e nero.

Reduce dal Festival di Cannes, dove il protagonista Marcello Fonte ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile, arriva sui nostri schermi “Dogman” di Matteo Garrone, recentemente bocciato alla corse agli Oscar per il film straniero. In una livida periferia romana si consuma un dramma a forti tinte desunto dalla cronaca di qualche anno fa. Strazio e angoscia a non finire, senza però indulgere in particolari truculenti. E questo è un gran merito.
Un piccolo film che in molti (che peccato!) avranno perso è “Tito e gli alieni” di Paola Randi, preziosamente interpretato, in un cast molto riuscito, da Valerio Mastandrea. Riflessione non banale sulla morte e sui valori della vita, ambientato in un apocalittico deserto del Nevada.

Dalle parti del sublime si colloca “Un affare di famiglia” del maestro giapponese Kore’eda Hirokazu che aggiunge un significativo capitolo al suo lavoro intorno alla famiglia e ai rapporti tra gli esseri umani.
Un film che concilia con il cinema.
Impegno e denuncia civile stanno invece alla base di “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini in cui la delicata vicenda di Stefano Cucchi viene raccontata senza timori reverenziali o compiacimenti narrativi. Raro esempio di film corretto e coraggioso, senza lasciarsi trasportare dallo sdegno o dalla rabbia. Importante l’interpretazione di Alessandro Borghi.

Negli ultimi scampoli di stagione, dopo il Festival di Venezia che sembra tornato ai lustri di un tempo, segnalazione obbligata per il turco Nuri Bilge Ceylon e il suo “L’albero dei frutti selvatici”, esemplare racconto di formazione in un paese attraversato da una profonda crisi di identità, e per “Senza lasciare traccia” di Ben Foster, ritratto di un’America ai margini riscattata dalla voglia di vita e di redenzione di una ragazzina determinata interpretata da una straordinaria Thomasin McKenzie. Ricordarsi del nome. Bella sorpresa anche la favola ecologista che sta alla base di “La donna elettrica” di Benedikt ErlingssonIn un’Islanda rudemente affascinante, la piccola/grande battaglia di una donna combattuta tra l’impegno ambientalista e le pulsioni materne. Interessante.

E giusto alla fine di questa veloce carrellata si colloca “Roma” di Alfonso Cuàron, film vincitore del Festivl di Venezia, prodotto da Netflix e quindi destinato al pubblico dello streaming. Fortuna vuole che, sia pur nei circuiti minori, il film sia arrivato nelle sale, dove ha fatto sfoggio della sua potenza narrativa anche grazie a un sontuoso bianco e nero che ricostruisce un’epoca dentro e fuori i personaggi.
Dimostrazione, se ce n’era bisogno, che il cinema va visto al cinema, senza se e senza ma, come recitava una frase fatta di qualche tempo fa.

Ad esempio, riusciremo mai a vedere in sala “La ballata di Buster Scruggs” dei fratelli Coen?
Con l’ottimo “Roma” si conclude la riflessione su un anno di cinema che ha offerto spunti importanti e interessanti almeno rispetto a quei film che abbiamo visto. Altri non li abbiamo visti e altri ancora non ci sono proprio piaciuti. Siamo naturalmente nel campo dell’opinabile e del relativo. Non ci resta che attendere il 2019 (in sala).

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