Intervista a Flaviana Robbiati

Sempre più spesso siamo a contatto con persone che provengono da Paesi stranieri, da culture lontane, persone che di primo acchito possiamo percepire come “diverse”. Ma conoscendole nel loro quotidiano, ci accorgiamo che la realtà è un'altra. Prosegue la serie di interviste a persone che vivono in zona e ci raccontano la loro esperienza. ()
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Sono musicanti, sono stagnini, sono esperti di cavalli, sono nomadi, sono liberi, sono zingari, sono mendicanti, sono ladruncoli, sono immigrati, sono ... persone.
Chiedo a Flaviana Robbiati di farmi conoscere la storia dei rom di Lambrate.

Sono passati 10 anni da quando si innescò il sovvertimento di uno stereotipo, che ha fruttificato negli anni, nonostante inciampi vari. Quando è nata la questione rom a Lambrate?
Prima del 2008 non c'erano bambini rom nelle scuole del quartiere. Quell'anno la Comunità di Sant'Egidio aveva iscritto 9 bambini rom della baraccopoli di via Rubattino (ca. 300 persone) che accoglieva rumeni, italiani e altri. Aveva preso contatto con loro dopo che, in via Corelli, era bruciata una roulotte e vi erano stati 4 morti, era morta anche una bambina di 4 anni in una roggia a Corvetto.

Cosa significò per lei andare contro corrente per favorire l'inserimento dei bambini rom?
Non mi sono mai chiesta se stavo andando contro corrente o no. Sono una maestra e per me tutti i bambini sono uguali e ugualmente importanti. Un bambino rom e semplicemente un bambino.

Come si era giunti alla presa di posizione dei genitori della scuola e del quartiere dell'Ortica?
C'era stata una mamma di via Cima che aveva scritto al ministro, chiedendo perché sua figlia dovesse stare seduta accanto a una pidocchiosa. Ma era stato l'unico episodio di manifesta ostilità.
La popolazione del quartiere aveva reagito bene, le famiglie italiane erano solidali, volevano ciò che è giusto, si fidavano dell'istituzione scolastica, che era stata sempre capace di gestire situazioni complesse con successo, come, nel passato, con l'immigrazione dal sud Italia. Il 2008 era stato tranquillo, ma nel 2009 erano sorti problemi per le minacce di sgombero fatte dal Comune.

Cos'era successo?
Nel 2009 s'inasprì l'accanimento contro i rom con continui sgomberi che li costringevano a spostarsi da una parte all'altra di Milano. Gli anni di quella giunta sono stati orribili.
Erano ormai 36 i bambini iscritti e la giunta voleva disperderli, smantellando il campo e dividendo le famiglie. Il Comune intendeva sistemare i bambini sopra i 7 anni, da soli, in una comunità; le mamme insieme ai bambini sotto i 7 anni in altre comunità, per gli uomini non c'erano proposte . Il 19 novembre 2009, il giorno prima della ricorrenza della “Dichiarazione dei Diritti”, c'era stato lo sgombero del campo. Scrivemmo a tutte le autorità comunali e di zona e ai giornali e questo aveva avuto un'eco in tutto il paese, perché era la prima volta che accadeva che qualcuno volesse tenere i rom e non scacciarli.
Non si difendevano le baraccopoli, che sono luoghi orribili con topi, freddo, insetti; si difendeva la continuità scolastica e l'unità delle famiglie. Gli sgomberi si ripetevano quasi ogni giorno, anche più volte al giorno. Se si sedevano su una panchina, arrivava la polizia a mandarli via. C'era molta violenza psicologica in questo.

La popolazione voleva difendere l'unità delle famiglie?

Sì, non solo il quartiere, anche una parte della città e il Cardinale Tettamanzi ne trattò a lungo nel discorso di S. Ambrogio. Allora intorno alla Comunità si creò una rete a Milano, che funziona tuttora. Milano risponde bene.
Nel 2009 furono le mamme italiane e le maestre ad accogliere i bambini a casa loro, li ospitavano, gli facevano la doccia, gli lavavano i vestiti. Arrivarono coperte, cibo dalle associazioni e dai cittadini. E contemporaneamente si giunse all'inserimento nel mondo del lavoro.
Oggi, più di 50 famiglie rom vivono in una casa. Non hanno tolto niente agli italiani, non hanno avuto corsie preferenziali.

Milano da una parte è generosa, dall'altra estremamente respingente.
Cerchiamo di costruire con chi ha voglia, lavoriamo per far conoscere e creare legami. Come è contagioso il male, è contagioso il bene.

I bambini italiani hanno saputo entrare in una relazione positiva con loro?
Sì, ci sono amicizie che durano da anni. I bambini, per natura, sono aperti a tutti, le famiglie però possono insegnare la pace o la paura e questo influenza i loro comportamenti.

E' stato avviato un percorso di inserimento e integrazione?
Come tutti, se ne hanno l'occasione, anche loro si integrano, lavorano, mandano i figli a scuola, o all'oratorio. Attualmente i bambini rom seguiti dalla Comunità sono 130, dal nido alle superiori, e i loro genitori lavorano quasi tutti. I giovani fanno volontariato con gli anziani soli, i profughi e in alcune iniziative per l'Africa.

Quest'anno, per la festa dei morti, abbiamo fatto la preghiera nella Chiesa di via Pitteri, insieme ad
almeno 200 amici rom e abbiamo nominato uno per uno tutti i loro cari morti. Molti muoiono giovani a causa d'incidenti: bruciati, annegati, malnutriti, o a causa della mancanza di cure mediche, per malattie come il diabete o il cancro, perchè curarsi costa e la vita dura fa invecchiare prima.
In strada rimangono gruppi resistenti ai cambiamenti. Non si vuole assolverli a prescindere. Ci sono comportamenti fastidiosi, ma non bisogna creare stereotipi.

La scarsa dimestichezza della lingua italiana è il primo ostacolo all'integrazione.
Molti non parlavano italiano.Se l'unico rapporto con i taliani è chiedere l'elemosina, non si migliora nell'apprendimento della lingua. Per chi lavora o va a scuola è diverso.

Quali sono i risultati dopo 10 anni, quei bambini li ha persi di vista?
Persi forse nessuno, quasi tutti hanno terminato le medie. Sui 18 anni molti si sono sposati, ma è un risultato positivo, perché di solito si sposano più giovani. Molti dei bambini di allora studiano ancora, anche le ragazze, frequentano persino le superiori. Si è così avviato un cambio di mentalità e le donne lavorano come donne delle pulizie o badanti, gli uomini nell'edilizia, come custodi sociali, come giardinieri. Abbiamo un ragazzo diplomato grafico informatico. Florentina, come altri, ha imparato a leggere e scrivere da adulta sui 18 anni e lavora, fa le pulizie in un asilo. Annamaria, che frequenta le superiori, ha abitudini ormai italiane, è parte di entrambe le culture.
Certo incontrano più difficoltà, rispetto agli altri stranieri.

Quindi l'integrazione sta funzionando?
L'integrazione è un percorso lungo, complesso, un cammino in salita. E'come un ponte: metà devono percorrerlo loro, l'atra metà noi. Ma oggi vanno a scuola, fanno volontariato con noi. Le mamme rom cucineranno per raccogliere fondi per le mamme africane. Aiutando gli altri, cambiano l'idea di se stessi, perché capiscono di essere in grado di “dare” anche loro, acquisitano dignità, uno sguardo diverso sul mondo. Se si è tenaci e se qualcuno aiuta, si ottengono grandi risultati.

Periferie e condizione sociale delle periferie, una guerra tra poveri?
Facciamo alleare i poveri. Abbiamo iniziato a farlo a Corvetto, dove cerchiamo di creare un aiuto reciproco che funziona: italiani anziani e nuovi italiani fanno festa insieme e si frequentano tutto l'anno. Son legami che durano. Sono diversi che aiutano altri diversi e scoprono il valore dell'amicizia. Far conoscere le persone significa che tu non sei indistinto, non sei uno zingaro stereotipato, sei una persona : sei Ion, sei Narciso, Nicoletta.

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