Un affare di famiglia

Eccellente lavoro intorno al tema “famiglia” senza ipocrisie e senza compiacimento. Un film che aiuta a riflettere e a interrogarsi sui valori delle umane cose. Da vedere. ()
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Giappone. Oggi. In una periferia senza qualità, come (quasi) tutte le periferie del mondo, interpreta la sua difficile quotidianità una famiglia, almeno all’apparenza, canonica.

La nonna garantisce la casa e una piccola ancorché misera pensione, il padre lavora saltuariamente nei cantieri, la moglie fa la stiratrice, il figlio, spesso con la complicità del padre, compie piccoli furti di cibo nei negozi, la giovane sorella della madre lavora in un peep show. In una notte di grande freddo viene anche accolta una bambina di cinque anni, maltrattata dalla sua famiglia di origine.
I giorni passano tutti uguali, sembrerebbe, evidenziati da piccoli espedienti messi in atto per sopravvivere.
La famiglia però trasmette calore, amore, protezione e offre sempre un piatto caldo o un bicchiere di tè.
Evento catalizzatore è proprio il consumo (e il bisogno) di cibo: in casa, per strada, in piccoli locali sufficientemente squallidi per non essere consigliabili ai più.

Un incidente di percorso, un furto in un supermercato finito male, solleva il tappeto. Sotto si scopre che tra i vari componenti della famiglia Shibata non esiste alcun legame di parentela. La nonna ha offerto la sua casa (e la sua pensione) per non vivere da sola, il padre e la madre, che prima faceva la prostituta, hanno, “nell’armadio” un omicidio del marito di lei quando erano amanti, il ragazzino è stato trovato abbandonato da piccolo in un’automobile, la ragazza è scappata di casa. La piccola Yuri, che aveva ricevuto calore umano e amore dalla sua nuova famiglia, ritorna tristemente nella casa dei veri genitori.
Il regista Kore’eda Hirokazu continua il suo lavoro di ricerca intorno al tema “famiglia”, dopo “Father and Son” (2013), “Little Sister” (2015) e “Ritratto di famiglia con tempesta” (2016) e racconta una vicenda che mescola abilmente alto e basso, sacro e profano e si schiera apertamente con un concetto di famiglia non tradizionale e, sicuramente, non convenzionale.

Il finale, affidato agli occhi dei più giovani, è aperto ma non è detto che vada a finire bene.
Premiato meritatamente a Cannes con la Palma d’Oro, il film (il titolo originale “Shoplifters” significa taccheggiatori) suscita riflessioni non banali intorno ai rapporti interpersonali e ai valori di fondo che, oltre ogni esasperazione, connotano il vero significato della parola famiglia.
Decisamente da non perdere.


In programmazione all’Arcobaleno Film Center

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