Pedro Páramo

Primo appuntamento del 2018 con il percorso di lettura a cura di Raffaele Santoro. Un gran bel libro… ()
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“- C'è stato un tempo in cui sentivo per molte notti il rumore di una festa. Mi avvicinai per vedere la festa e vidi questo: quel che stiamo vedendo adesso. Niente. Nessuno. Le strade deserte come adesso... - Questo paese è pieno di echi. Io non mi spavento più. E il peggio di tutto è quando senti chiacchierare la gente, come se le voci uscissero da qualche fenditura e, senza dubbio, così chiare che le riconosci”.

Quel paese è Comala e, in quel paese, abitano voci di vivi ormai morti che, come anime costrette ad un eterno purgatorio, si aggirano e si sentono dovunque. Le voci popolano Comala anche se Comala è ormai spopolato. Ma quelle voci non sono voci anonime, hanno cognizione di sé, del loro presente e del loro passato. E, per questo, pur essendo solo parlanti, quelle donne e quegli uomini a cui quelle voci appartengono si manifestano come fossero ancora e tutt'ora viventi, al punto di dire che lì non vi è più “Niente. Nessuno”, essendo che anche chi pronuncia quel “Niente. Nessuno” è una di quelle presenze assenti di Comala.

Un mondo quindi segnato dalla negazione, che designa cose che non esistono più ma che, tuttavia, continuano ad esserci, impossibili da rimuovere. Siamo perciò di fronte ad una soggettività senza soggetto, ad una immaterialità che si materializza attraverso il tramite di ciò che essa dice e narra, al punto che si potrebbe dire che è il “romanzo” in sé, nel suo essere deposito e contenitore di quelle narrazioni, che conferisce e dà sostanza, l'unica sostanza possibile, a quelle voci. In quel luogo svanisce quindi l'idea stessa di un aldiquà e di un aldilà perché è come se tutto si svolgesse in un eterno presente che porta e si porta addosso i segni indelebili e inalterati di ciò che è stato e continua a essere.

Non vi è pace infatti in quel mondo di Comala. Vi è distacco perché le voci parlano come se parlassero di qualcuno o di qualcosa diverso da sé, giacché vivono e tutto lì vive in quella condizione priva della “fisica” delle sensazioni, tanto che le voci stesse “...non avevano nessun suono, non suonavano; si sentivano, ma senza suono, come quelle che si sentono nei sogni”. Ma i lutti, le ferite, le offese, gli oltraggi, le violenze, le follie di cui quelle voci parlano e raccontano sono ancora tutte lì e, prive di assoluzione, continuano a generare quell'eterna espiazione e quell'eterno dolore che rende tutti vittime anche chi ne è stato causa, facendo quindi di quelle voci, voci di morti condannati a vivere.

“Pedro Páramo” è quindi prima di tutto questo: un libro di voci che escono dalle case in rovina di un paese abbandonato che appare lo specchio allucinato di un luogo che contempla il proprio disfacimento. Di un luogo assoluto prima ancora che di un luogo messicano sebbene al Messico rimandino le sue atmosfere. Ed è in questo tipo di mondo che si piomba in quel moltiplicarsi di frammenti che narrano pezzi di storie che man mano vanno componendosi nella storia di e su Pedro Páramo. Ma è un procedere labirintico per effetto delle continue entrate e uscite di scena di quelle molteplici voci tra le quali ci si aggira in cerca di appigli. Perché soppresse le sequenze narrative, succedendosi il mutare dei narranti e dubitando dello stato in cui essi si trovano nel momento in cui si esprimono, si è come trasportati a vagare anche noi in quell'universo dissolto, in quel tempo senza tempo, in quello spazio irreale, in quel deserto metafisico. Dove la vita e la morte si confondono e si fondono in quelle voci fantasmatiche.

“Pedro Páramo”, pubblicato nel 1955 è il capolavoro di Juan Rulfo (1918-1986) considerato da molti il più grande scrittore messicano e, sicuramente, uno dei più grandi autori ispano-americani del Novecento.
Un romanzo ritenuto il punto di svolta della narrativa ispano-americana e ammirato da grandissimi scrittori sudamericani come Borges, Cortazar e Garcia Marquez il quale, in relazione a “Pedro Páramo”, ebbe a dire: “Non ho provato una commozione simile da quando avevo letto “La metamorfosi” di Kafka.”.
Incentrato sulla figura di Pedro Páramo, che ne è il protagonista, il romanzo comincia come il racconto di un viaggio alla ricerca del padre che Juan Preciado, figlio di Pedro Páramo, intraprende per conoscere suo padre, da cui a suo tempo sua madre si allontanò e da cui, adesso, in punto di morte, ella chiede al figlio di andare per “fargli pagare caro l'oblio in cui ci ha lasciati”. E in quel rancore in cui la madre spinge il figlio a rivalersi del padre appare già quel grumo di ferite inferte e subite che genererà distruzione e morte - essendo il tema della distruzione una dei temi portanti di “Pedro Páramo” - trascinandovi, come in un buco nero che risucchia ogni cosa, la terra, le esistenze, la vita stessa di Comala. E infatti la prima definizione che Juan Preciado, arrivando a Comala, sentirà di suo padre sarà quella di essere a sua volta “un rancore vivente”, configurandosi quella spirale di cui si diceva, ma apparendo anche subito l'equivoca realtà delle cose laddove a quell'enigmatica definizione si aggiunge poco dopo, altrettanto laconicamente, che “Pedro Páramo è morto molti anni fa”. Ben presto Juan Preciado arrivato a Comala comincia a “incontrare” i suoi antichi abitanti da cui ascolta quelle storie in cui si sente sempre, immancabile, quel frangersi della vita contro gli oltraggi della vita senza che da questi sia mai dato né salvarsi, né redimersi. Un mondo condannato dunque ad una eterna ed infinita pena, privo come esso è della possibilità di una qualsiasi grazia non solo terrena ma financo divina, un mondo dove anche Dio è morto. E dove la dissipazione della vita viene inesorabilmente punita dalla vita stessa in quanto gli uomini appaiono assolutamente incapaci di difendersi gli uni dagli altri, ma anche da se stessi, dal loro stesso istinto di distruzione che gli si ritorce in un'autodistruzione che assume le cupe sembianze di una punizione. Juan Preciado vaga in quel mondo che gli si disfa intorno chiedendo e chiedendosi chi ha veramente dinanzi a sé: “Lei è viva Damiana? Me lo dica, Damiana!”. Ma Juan Preciado comprenderà, ben presto che, in quel luogo, è inutile porsi domande come questa, “Capisco sempre meno” dirà infatti, con quello spaesamento che lo rende poco a poco sempre più simile ai suoi interlocutori. Finché è egli stesso a trapassare in quel mondo e ad unirsi ad esso, a diventare parte di quei mormorii che lo circondano, fagocitato in essi: “Mi hanno ucciso i mormorii” dirà, diventando, da quel momento, anch'egli un mormorio fra gli altri. E, soprattutto, diventando non più colui che va alla ricerca delle radici paterne ma colui che raccoglie le testimonianze delle vittime del padre, il testimone dei suoi crimini. Pedro Páramo è infatti il proprietario della vasta tenuta della Media Luna che gli assicura il dominio su uomini e donne, terre e animali. E' un uomo oscuro, malvagio, corrotto e autoritario che ha seminato figli in tutto il paese e che ha sempre esercitato in modo sprezzante il suo potere. Pedro Páramo non è stato quindi né un padre per i propri figli, né un padre per quella comunità che da lui dipende. Un'assenza paterna che ha lasciato soli i propri “figli”. E' quindi la violenza ciò che illumina la natura profonda di Pedro Paramo e che si riproduce concentricamente a partire da lui incombendo dovunque. Una violenza che penetra nelle cose, le infesta e si fa vera e propria maledizione. Una violenza che diventa violenza della vita, molto più oscura e imponderabile di quella umana. La quale ricadrà anche su Pedro Paramo, senza che il suo potere nulla potrà per evitargli quella scia di morte e di follia in cui sarà gettato. A partire dalla morte di Miguel, l'unico figlio da lui amato e riconosciuto, violento e dissoluto quanto lui, la cui morte assume i tratti preconizzanti di ciò che attende Pedro Páramo, come egli stesso dirà: “Sto cominciando a pagare. E' meglio cominciare presto, per finire in fretta”. Per giungere alla follia di Susana San Juan, l'unica donna amata da Pedro Páramo ma che immersa nella sua austera e delirante follia lo lascerà in quella sua muta e contemplativa ossessione amorosa, frustrando, fino alla sua morte, il desiderio d'amore di Pedro Páramo. E' un mondo segnato dalla sconfitta quello di “Pedro Paramo” e a nessuno è dato evitarla. E reiterando fino alla disumanità il demone della violenza Pedro Páramo porterà alla distruzione l'intera Comala e così facendo causerà anche la sua stessa distruzione, altrettanto violenta e brutale. In quel mondo non vi è perdono né per le vittime né per i carnefici, quasi che esistere e l'esistenza fossero già essi stessi una colpa senza riscatto, fossero anch'essi un peccato:”... padre Renteria mi ha detto che non avrei mai conosciuto la gloria dei cieli.” - dice, a un certo punto, Dorotea, una delle vittime a Juan Preciado e così continua - “Che non l'avrei nemmeno vista da lontano. A causa dei miei peccati; ma lui non avrebbe dovuto dirmelo.
Già di per sé la vita è una fatica. L'unica cosa che ti fa muovere i piedi è la speranza che quando muori ti portino da un posto a un altro; ma quando ti chiudono una porta e quella che rimane aperta è unicamente quella dell'inferno, è meglio non essere neppure nata”. In quel mondo immorale, segnato dalla rassegnazione, dove il sacro è impotente e la speranza espulsa, quelle voci raccontano e mettono a nudo il dolore della terra: “La terra, questa valle di lacrime” dice padre Renteria.

In “Pedro Páramo” vi è una poetica tutta terrena dell'esistere, lontana dai riscatti ultraterreni. Vi è una grande pietà che si genera poeticamente proprio per reazione a quell'apparente assenza e sottrazione di pietà che lo pervade. Dove la poesia nasce proprio da quell'incedere etereo e impalpabile proteso verso lo svanire, come se tutto avvenisse in un sogno, in contrasto con quelle voci che persistono prepotentemente oltre la morte, quasi ad affermare una eterna fisicità nella morte, l'onnipotenza della morte. In “Pedro Páramo” vi è un senso ancestrale e primitivo che penetra nel fondo oscuro delle cose e contiene ricchezza generativa e tragicità distruttiva. Con una scrittura che, nella sua feroce asciuttezza, non si concede e non concede, Rulfo mette in scena un lutto collettivo e antico quello dei vinti offesi dalla vergogna, dalla colpa, dai soprusi ma di fronte ai quali non esistono più i vincitori, destinati come Pedro Páramo a divenire “un mucchio di pietre”.


(Raffaele Santoro)


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