Il fucile da caccia

Prende il via con “Il fucile da caccia” di Inoue Yasushi il percorso di lettura proposto da Raffaele Santoro sul tema “Libri sparsi nel mondo, mondi sparsi nei libri” che ci accompagnerà sino al mese di giugno. Buona lettura. ()
il fucile da caccia immagine

“...in quel periodo, in seguito ad un evento casuale, ero stato colpito dal nesso tra un fucile da caccia e la solitudine umana...” Lo strano simbolismo contenuto in quel nesso si traduce, poco dopo, in una poesia in cui vi è l'evocazione della figura di un solitario cacciatore a cui “Il suo fucile da caccia, lucido e splendente, gli preme sul fianco, scavando nello spirito solitario, nella carne solitaria.”

In quest'immagine, che ci viene proposta all'inizio de “Il fucile da caccia”, è rappresentata una condizione che è la condizione dei personaggi di questo romanzo i quali, soli con se stessi, hanno, ciascuno di essi, una verità, la loro verità che, come quel fucile, preme contro di loro e scava dentro di loro. Perché quella verità è, in realtà, una ferita e, da quando a ciascuno di essi quella verità è nota, è quella ferita che scava in loro, e il dirla quella verità, svelandola, renderà quella ferita visibile e indelebile. Ed è proprio in questo suo essere disvelamento, scoperta di ciò che vi è dietro ciò che appare che “Il fucile da caccia” concentra il suo nucleo narrativo e il suo significato più profondo, raccontandoci quanto segreta possa essere la vita di ognuno e quanto inconoscibile a chi gli è vicino, ma anche quanto crudele questo possa rivelarsi. 

Pubblicato nel 1949 “Il fucile da caccia” è il romanzo d'esordio dello scrittore giapponese Inoue Yasushi, uno dei maggiori scrittori giapponesi del Novecento, nonché il suo romanzo più significativo e riuscito, avendo egli saputo qui raggiungere, a fronte della fulminea brevità della stesura, una profondità e una densità narrativa difficilmente ottenibili. “Il fucile da caccia” è un romanzo epistolare in quanto basato su tre lettere che tre donne: Shoko, Midori e Saiko, inviano a un uomo: Misugi Josuke, il quale è lo zio di Shoko e il marito di Midori. A sua volta Shoko è figlia di Saiko e nipote di Midori in quanto Saiko e Midori sono cugine. Queste tre lettere Misugi le invia - facendole precedere da un'altra lettera, scritta personalmente da lui - a colui che, nel romanzo, svolge il ruolo del narratore in quanto costui, essendo un poeta, aveva pubblicato “sulla rivista “L'amico del cacciatore”,”..una poesia dal titolo “Il fucile da caccia”, in cui si parlava di un cacciatore. E Misugi essendo cacciatore e avendo letto sulla rivista la poesia scopre che quel cacciatore descritto in quella poesia corrisponde a lui, così come esplicita al poeta nella lettera a questi indirizzata. E, in effetti, il narratore/poeta, leggendo la lettera di Misugi rammenta che c'era stato uno sconosciuto cacciatore che egli aveva incontrato, un giorno, su un sentiero e che lo aveva colpito perché gli aveva trasmesso “un'immagine di sconfinata solitudine” da cui quel “nesso tra un fucile da caccia e la solitudine umana”, che ispirerà poi la sua poesia. 

Attratto dalla figura del poeta, che così bene ha saputo leggere in lui, Misugi decide di farlo partecipe di quelle sue tre lettere, perché il poeta a questo punto “sapesse tutto”, giacché “L'uomo è una stupida creatura, che dopotutto aspira a essere conosciuta da qualcuno” scrive Misugi. La solitudine del cacciatore Misugi si rivela quindi, in realtà, la profonda solitudine di un uomo che si ritrova, da solo, con il fardello di quelle tre lettere: ”...quando lei mi notò le avevo appena ricevute...” scrive Misugi al poeta, un fardello dato dal loro contenuto e da quello che per lui rappresentano essendo proprio da esse che deriverà per Misugi la sua solitudine. Emerge da tutto ciò, amplificato proprio dall'utilizzo della formula epistolare, il bisogno - che come una cifra narrativa attraversa tutto il romanzo, essendo presente anche nelle tre lettere - di rendere partecipe l'altro della propria interiorità, facendo luce sulla verità delle cose di fronte al mondo e di fronte a se stessi. Come un bisogno di aprire la propria coscienza ma anche di dare piena riconoscibilità e insieme riconoscimento ai propri sentimenti e ai propri smarrimenti che, tenuti più o meno lungamente, solitariamente e segretamente dentro di sé, vogliono essere detti per non essere più repressi. Liberandoli e liberandosi da quella condizione di taciuto e di non detto in cui sono stati tenuti e vissuti. E, a sua volta, anche il poeta se ne farà latore in quanto, sebbene Misugi gli chieda di distruggere le tre lettere dopo averle lette, egli deciderà invece di trascriverle, facendosi in tal modo testimone delle verità di quelle tre donne, in un gioco letterario a cerchi concentrici fatto di racconto nel racconto. 

E da quelle lettere emerge una storia che parla di un grande amore, ma un amore che non ha mai potuto esistere alla luce del sole, libero di poter essere vissuto in tutta la sua pienezza, bensì costretto a rimanere chiuso e soffocato in se stesso, indicibile al mondo e quindi impossibile da condividere nel mondo. Un amore clandestino e solitario tanto puro e forte quanto spietato e cieco perché, in nome di esso, si sono traditi altri legami e altri affetti. Ai quali, tenendo nascosto quell'amore, di esso si voleva renderli ignari ma, così facendo, sottoponendo quegli altri legami e quegli altri affetti a un deliberato e crudele inganno.

Un amore perciò basato sulla menzogna e, per questo, un amore che si rivelerà segnato dalla sconfitta e condannato a generare intorno a sé morte e solitudine. E ciò a partire proprio dai protagonisti di quell'amore e cioè Misugi Josuke e Saiko, la cugina di sua moglie, i quali per tredici anni vivranno quell'amore celandolo in un assordante silenzio che diverrà parte della loro vita nella quale continueranno a vigere i legami che uniscono Josuke e Saiko con Shoko e Midori. Ma, in quella reiterata dissimulazione, vi è tutta la consapevolezza della ferocia insita in essa, incarnata da quel suo “piccolo serpente bianco” (il bianco in Giappone è il segno del lutto) di cui parla Saiko nella sua lettera, “...quel serpente che le persone hanno dentro di sé” dice Saiko, simbolo di quell'oscuro sé che renderà doppia la sua esistenza e quella di Josuke. 

Dove la felicità: “...sono stata sempre felice grazie al tuo grande amore. Più di ogni altra donna al mondo.”, lotterà con un incessante “coscienza della colpa”, così come scrive Saiko a Josuke. Ma quella recita muta si rivelerà essere stata un ancor più tragico quanto inutile inganno giacché Midori aveva sempre saputo. E, in un convivere di amore e di odio, di mai sopite speranze di riavere Josuke e di desideri di vendetta, chiusa con Josuke in quel loro “...menage “Fortezza””, come Midori lo definisce nella sua lettera, ormai gelido e svuotato di ogni intimità e affettività, ella aveva convissuto con quella sua verità. Che, un giorno, trovandosi con Saiko e, rivedendo e rivivendo in lei quel lontano giorno in cui la vide con Josuke, le svelerà, mettendo a nudo quella ferita che aveva portato tanto lungamente dentro di sé. E così “Il velo del segreto che tu ed io avevamo mantenuto per tredici anni era stato brutalmente strappato” scrive Saiko nella sua lettera a Josuke e quell'espiazione sempre attesa - “...il giorno in cui lei avesse saputo, morire sarebbe stato il mio modo di chiedere perdono. E così ho vissuto sempre a faccia a faccia con il fantasma della morte...” scrive Saiko - si compirà. Da quel momento quell'amore sprigionerà solo abbandono e solitudine. Midori nella sua lettera comunica a Josuke la fine di quel loro tacito patto, basato su quella sorda e trattenuta sopportazione reciproca: “...ormai appare chiaro che sul nostro triste patto sta per calare definitivamente il sipario...vorrei ricevere la lettera con il tuo consenso al divorzio.” E poi Shoko che solo dalla lettura del diario della madre scoprirà la sua verità: “Caro zio, meglio dirlo subito: so tutto, tutto di te e la mamma. 

Ho scoperto ogni cosa il giorno prima della sua morte. Ho letto di nascosto il suo diario.” Con queste parole poste poco dopo l'inizio della sua lettera, Shoko rivela a suo zio la bruciante scoperta di quel terribile inganno. Un inganno tanto più doloroso e sconcertante per Shoko perché in esso vi è il tradimento di un patto affettivo che l'aveva sempre tenuta unita a sua madre ma anche a suo zio. Shoko rievoca nella sua lettera il tremendo impatto vissuto nel leggere il diario e l'immensa tristezza provata per il crollare di tutte le sue certezze: “Ma com'è possibile che la mia dolce mamma, il mio carissimo zio Josuke abbiano deciso di essere malvagi, anzi, diabolici?” scrive Shoko. Ma, su tutto, pesa quell'assenza del dire e del dirsi le cose che si protrarrà fino alla fine in quanto neanche in punto di morte la madre dirà alla figlia né lo farà lo zio, decretando in Shoko un'inesorabile divaricazione con il mondo degli adulti e facendole desiderare solo di allontanarsi da quel mondo: “Quello che ti chiedo è una sola cosa: non vorrei più vedervi tu e la zia Midori...Vorrei venire fuori da quel groviglio di ”colpa”che ha soffocato mia madre”. Alla fine il narratore/poeta riprenderà in mano la lettera scritta e ricevuta da Misugi e, “Nel rileggere più volte...percepii in quella singolare scrittura, così bella e fluente, una tristezza cupa e intollerabile”, scrive a conclusione del romanzo. 

Con uno stile che è poetico, elegante, calmo, controllato, quasi immobile, “Il fucile da caccia” emana un fascino che lo rende come ammantato di un suo segreto incanto, quasi avesse nel suo lirismo e nel suo intimismo una sua geometrica perfezione. Ma dalle sue pieghe e dai suoi meandri fuoriesce tutto l'impietoso vortice delle emozioni e dei sentimenti, delle fragilità e delle debolezze, dei pudori e delle amarezze. Alla fine non vi sono né giudizi, né condanne, né riscatti né redenzioni, ma vi è un'umanissima pietas verso quel bisogno inestinguibile di amare ed essere amati che ci può mettere in lotta con noi stessi e con il mondo, conducendoci dentro una vita nota solo a noi stessi, ma che si può rivelare anche oscura a noi stessi.    


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