I beati anni del castigo

Con il romanzo di Fleur Jaeggy si conclude il percorso dedicato al tema “Leggere il ‘900 europeo al femminile”. Un nuovo ciclo di letture a cura di Raffaele Santoro riprenderà dopo l’estate (La Redazione). ()
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“I beati anni del castigo” è un romanzo la cui nota dominante è quella del perenne scarto tra la forma esterna delle cose e quella che invece è la loro effettiva interiorità. Tale forma esterna è contrassegnata da un ordine che regola e sovraintende tutto e con cui si manifesta la realtà delle cose così come appare. Ma dietro tale ordine fuoriescono segnali opposti che rivelano l'effettiva interiorità che quell'ordine maschera. In questo perenne scarto si genera un conflitto - latente in quanto sottoposto ad un controllo e a un autocontrollo continuo - in cui convivono: l'idillio, la quiete, la perfezione all'esterno; la cattività, il caos, l'abisso all'interno. Determinando una indissolubilità di tali opposti destinati a confondersi gli uni negli altri. 

D'altro canto “I beati anni del castigo” già dal suo titolo si offre al gioco degli ossimori, contenendo quel titolo qualcosa di palesemente inquietante e in sé all'apparenza contraddittorio. Un titolo – per riprendere una felice espressione di Manganelli da lui riferita all'uso che la Jaeggy fa delle parole – “delicatamente perverso”. Uscito nel 1986 “I beati anni del castigo” è il romanzo sicuramente più importante di Fleur Jaeggy, per il quale ha avuto ampi riconoscimenti e da cui ne è stata ricavata anche una riduzione teatrale realizzata da Luca Ronconi nel 2010. Nata e cresciuta in Svizzera, ma stabilitasi in Italia dove vive e dove ha scritto, tra l'altro in italiano, i suoi libri, Fleur Jaeggy è un autrice che nelle sue ambientazioni e, in particolare, in quella de “I beati anni del castigo”, proietta il suo mondo di provenienza, cioè la Svizzera tedesca – essendo ella nata a Zurigo – filtrato dalle sue personali esperienze. 

“I beati anni del castigo” è ambientato infatti in un collegio femminile, nel cantone svizzero-tedesco dell'Appenzell, stante che Fleur Jaeggy nei collegi svizzeri trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza, come le protagoniste del romanzo che sono, infatti, anch'esse adolescenti. E già nella descrizione di quel mondo e di quei luoghi Fleur Jaeggy evoca quella doppia valenza di cui si diceva, in cui il nitore esteriore fa da schermo al trasparire di un senso di consunzione: “...si ha l'impressione che dentro succeda qualcosa di serenamente fosco e un poco malato. Un' Arcadia della malattia. Là dentro sembra che vi sia pace e idillio di morte, nel nitore.”. E così, come un entomologo che studia i propri insetti, l'anonima protagonista, io narrante, comincia a raccontare di sé e di Frederique, entrata a un certo punto nel collegio e, da quel momento, nella sua vita. In quel collegio - istituzione chiusa, separata dal mondo – dove regnano il lindore e le buone maniere, la sottomissione e l'ordine, un luogo cosmopolita abitato da ragazze accomunate dal privilegio sociale e dal loro status, una prigione dorata. Dove, in realtà, si è soli con se stessi, alla ricerca di se stessi: una ricerca di assoluto e di solitudine inconciliabile con la vita: “Cercavo la solitudine e forse l'assoluto. Ma invidiavo il mondo”, dice la protagonista narrante. Nella sua vita come in quella di Frederique non vi sono concessioni, non vi sono illusioni, essendo già divenute implacabilmente fedeli alla propria lucida spietatezza: “...la vita l'abbiamo vista passare dalle finestre, dai libri, dall'alternarsi delle stagioni, dalle passeggiate. Sempre di riflesso, un riflesso che sembra raggelato sui davanzali”. Così la disciplina del collegio diventa ferrea disciplina in se stessi e con se stessi. Con una scrittura votata alla sottrazione Fleur Jaeggy ci propina pagine distillate, dove quella scrittura si spezza e si scandisce in frammenti, condensando pensieri secchi, taglienti da cui emana ferocia, gelo, perturbamento, distacco che sono l'anima, lo stile e la poetica de “I beati anni del castigo”. Eppure una scrittura che non è solo quello che appare perché in essa vi sono anche i suoi opposti, nel suo essere anche pietosa, empatica, soave, raffinata. Vi è una levità e una levigatezza nella durezza tutta implicita che si aggira in quel mondo e in quelle vite. Tutto è compresso e ovattato, nulla si erge ed esplode, mansuetudine e inappariscenza mitigano ed offuscano pulsioni che avranno a che vedere con la follia e la morte. Una trama esilissima quella de “I beati anni del castigo” che è un viaggio nella memoria di sentimenti vissuti e praticati nei silenzi del non detto, ma non per questo meno forti. 

Sentimenti di folgorazione/affascinazione della protagonista narrante verso la compagna Frederique, concentrato di inarrivabile e algida perfezione. Quello tra lei e Frederique sarà un cercarsi nel distacco, come opposti che si avvicinano e si allontanano, tra l'attrarsi e il perdersi, tra desiderio di relazione e assenza di relazione, tra aspirazione alla perfezione e impossibilità della perfezione. E se Frederique, la più ordinata, la più brava, la più bella incarna l'irraggiungibilità di quella perfezione di cui è prigioniera, proprio questo alimenta quell'attrazione che la protagonista narrante ha verso di lei, al punto di dichiarare prima a se stessa e poi a Frederique l'amore che nutre per lei. Un innamoramento che non diverrà mai passione, fisicità, abbandono pur avendo una sua intimità, complicità, profondità. C'è, in quel mondo, un senso di privazione che si fa castigo e che arriva da lontano, da separatezze fisiche e affettive con genitori che non ci sono o meglio che ci sono ma o non riescono a esserci o non vogliono esserci. E allora lo stare in quel collegio diventa un essere rinchiusi, come in castigo appunto, ad espiare colpe che non si hanno, in realtà vittime di voleri e incapacità altrui. E così si finisce per far diventare quella condizione, in sé restrittiva e claustrofobica, la propria condizione e impossessarsene. 

Certo c'è un'autolesionistica perversione in ciò ma è anche un modo, forse l'unico, per convivere con una tristezza di cui non ci si può liberare, che diventa un sottile piacere: “...perseveravo nel piacere dell'andare fino in fondo alla tristezza”, perché “vi è come un'esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, nei beati anni del castigo”. Come un senso di profonda malinconia che nasce dalle mancanze e si nutre di se stesso. Attraverso le sue riflessioni la protagonista narrante e, tramite lei Fleur Jaeggy, portano sistematicamente e lucidamente a galla un continuo smascheramento di cose: l'inautenticità di quell'ordine, la consapevolezza della propria adolescenza rubata, l'inadeguatezza degli adulti che siano essi genitori o educatori, le ipocrisie di quell'educazione che induce un finto autocontrollo, la sopraffazione dell'altro nelle dinamiche adolescenziali femminili, fino a disvelare l' immensa vulnerabilità celata dalle ossessive manifestazioni di invulnerabilità. 

Perché “L'ordine è come un possesso, una possessione”, dice profeticamente a un certo punto la narratrice e, parlando di Frederique, così la descrive: “Era in ordine Frederique, ossessivamente ordinata, con i suoi quaderni, con la sua calligrafia, con i suoi armadi” e infatti, in uno di quei loro colloqui, Frederique le dirà: “J' aime l'ordre”. Anni dopo si ritroveranno fuori da quel collegio, a Parigi, e quella sua profezia rivelerà essersi avverata oltre le sue previsioni: “Ancora una volta era andata più in là di me” dirà di Frederique. Scopre che Frederique vive da sola in un luogo abbandonato, in una stanza spoglia, in condizioni di indigenza: “Non rimasi tanto sorpresa dall'indigenza, quanto dalla sua grandiosità. Quella stanza è un concetto. Non so di che cosa...La perfezione dei tempi del collegio si è installata nella sua stanza...Vive, pensai, come in un sepolcro...Mancava nella stanza solo una corda”. In quella stanza Frederique gioca col fuoco e parla con i morti. “Qualche anno dopo, tentò di bruciare la sua casa di Ginevra, le tende, i quadri e la madre. La madre leggeva nel salotto”. 

 I beati anni del castigo” svela così il suo volto e il suo oggetto, quello della follia, l'esito esplicito e incontrollabile delle ossessività e delle ossessioni di Frederique. Perché “Ordine e sottomissione non si può sapere quali risultati daranno nell'età adulta” aveva detto un giorno la narratrice e, nell'ultimo incontro che avrà con Frederique, constaterà inesorabilmente che “Si ostinava ad essere ancora la più disciplinata di tutte, la più obbediente”, incapace di liberarsi delle sue ossessioni, dalle quali solo la morte l'avrebbe potuta liberare: “Dopo vent'anni mi scrisse una lettera, ne aveva abbastanza di essere ospite del manicomio, se continuava così avrebbe preso la via del cimitero”. E, alla fine, come se girasse su se stesso, la conclusione de “ I beati anni del castigo” è già nel suo inizio, in quel suo incipit nel quale si evoca la morte di Robert Walser il grande scrittore svizzero, anche lui vissuto lungamente in un manicomio nell'Appenzell e morto lasciandosi cadere nella neve durante una passeggiata: “A volte penso sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere in un sepolcro naturale, nella neve dell'Appenzell, dopo quasi trent'anni di manicomio” dice di quella morte la narratrice. E in questo gioco di accostamenti e di rimandi tra memoria romanzesca e letteraria, tra vite immaginate e vite reali ancora una volta Fleur Jaeggy riesce ad evocare cose che sono oltre ciò che appare: la poesia di quella follia e di quella morte che soffici e leggere si stendono nel bianco nitore della neve.

Raffaele Santoro


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