Il giunco mormorante

L’appuntamento di letteratura “al femminile” per il mese di aprile è con il romanzo della scrittrice esule russa Nina Berberova.


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Vi può essere, a una prima lettura di “Il giunco mormorante”, l'impressione di muoversi dentro un vuoto, l'impressione cioè di qualcosa di inafferrabile trasmessoci da quel senso di etereo, di incorporeo, di impalpabile che lo pervade. Come venissimo sfiorati da un soffio esile e sottile.

Un po' alla volta, però, ci accorgiamo di venire avvolti da questa immaterialità, quasi ne sentissimo provenire una tenue sensazione di calore e un sommesso mormorio che ha come l'incedere di un lamento. Siamo, in altre parole, trasportati dentro un'intimità che ci parla di sensazioni e di sentimenti, della loro intensità ma, al tempo stesso, della loro fragilità e precarietà da cui quel suono, quel lamento, pacato ma persistente che ci sembra di sentire. “Il giunco mormorante” scritto dalla Berberova nel 1958, è un brevissimo racconto che racchiude, in questa sua brevità, i tratti di un piccolo distillato, intimamente lirico e poetico, sulle cose che scompaiono o, quanto meno, che mutano, a partire dall'amore ma non solo e ciò nel fluire del tempo che scorre e che trasporta tutto con sé. Ma il tempo e le cose divenuti passato continuano a vivere in quel mondo assolutamente personale e nostro, in quello “spazio di verità” parallelo che appartiene al singolo e solo a lui che la Berberova chiama “no man's land”, quella “terra di nessuno” a cui ella dedica e su cui incentra questo racconto. Nina Berberova, nata nel 1901 a San Pietroburgo, nel 1925 si trasferì, esule, a Parigi dove visse fino al 1950. Questa sua condizione ed esperienza influì profondamente sulla sua vita e sulla sua opera tanto che la Berberova è stata considerata da molti il cantore della melanconica vita di quei russi che transfughi della rivoluzione ed emigrati a Parigi si trovarono ad adattarsi, in modo sofferto, alla realtà di una nuova vita lontani dalla madre patria.

Ed anche ne “Il giunco mormorante” appare l'eco di quell'atmosfera. La storia narrata ha infatti il suo inizio a Parigi e la protagonista è una giovane donna russa lì emigrata la quale, a un certo punto, riflettendo su di sé e sulla sua vita a Parigi, dice: “quanta sofferenza, qui, e quanta ce ne sarà ancora, non solo sofferenza in genere, ma sofferenza russa, quella nel cui alveo anch'io oggi mi trovo”. In queste parole risuona evidente l'amarezza di un presente ma anche l'aleggiare di un passato che vive nel rimpianto e si vela di nostalgia, tanto che, successivamente, parlando di un certo paesaggio ella dirà che le “suscitava nostalgia di Pietroburgo”. Vi è perciò ne “Il giunco mormorante” quest'evocazione di un passato che da concreto riferimento all'esistenza della protagonista diventa via via la cifra di tutto il racconto ciò in cui tutto trapassa e si fissa, in quanto destino stesso di ogni presente allorquando la sua realtà muta. Ma quel presente divenuto passato non andrà perduto esso continuerà a vivere, non solo e non tanto come ricordo e nostalgia, ma come una sorta di eterno presente dentro la vita della protagonista, mantenendone vivo il suo sentimento. Lungi da qualsiasi immobilismo o ripiegamento quello che la Berberova fa intendere è che le cose possono continuare a vivere se si riesce a tenerle dentro quello spazio di “libertà assoluta” e di “mistero assoluto”, così come lei lo definisce, che è la “no man's land”, quel luogo dell'anima in cui vigono una sensibilità e una vita squisitamente nostre. “Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria “no man's land”, in cui è totale padrone di se stesso. C'è una vita a tutti visibile, e ce n'è un'altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla” - dice la protagonista del racconto, e poi aggiunge - “Ma non bisogna credere che quest'altra vita, questa “no man's land”, sia la festa e tutto il resto i giorni feriali. Non per questa via passa la distinzione: solo per quella del mistero assoluto e della libertà assoluta”.Se quindi tutto, intorno a noi, si trasformerà sarà il dare ascolto a quella “no man's land” che consentirà di affermare la propria libertà e di preservare ciò che si è vissuto. Ed è questo ciò che accade nelle vicende della protagonista de “Il giunco mormorante”.

La storia d'amore da cui il racconto prende le mosse è ritratta da subito dalla Berberova nel suo interrompersi allorché, proprio quella mattina del “2 settembre 1939”, giorno dello scoppio della guerra, già esso stesso segnale dell'instaurarsi di una rottura, la protagonista del racconto è all'aeroporto in procinto di separarsi da Ejnar, colui con cui aveva sin lì condiviso quell'amore.

Un amore nato e cresciuto, per entrambi, in una loro reciproca “no man's land”: “...entrambi sapevamo cosa sono il segreto assoluto e la libertà assoluta”, rammenta la protagonista. Ma Ejnar ha deciso di lasciare Parigi e di fare rientro nella sua Stoccolma e quella separazione segnerà l'inizio della fine di quel sentimento condiviso in quel modo. Quel loro presente si stava già tramutando in passato perché ormai una “...seconda vita era cresciuta e aveva cominciato a mettere in ombra la prima”, quella in cui quel loro incontro aveva avuto luogo Ejnar infatti tornato in patria ben presto scomparirà dalla vita di lei ma non dai suoi pensieri in cui come una “proprietà segreta” continuerà a vivere. La Berberova si sofferma a rendere la malinconica amarezza che le cose hanno laddove il loro divenire nel tempo non è un loro farsi futuro ma, al contrario, è quel loro diventare passato. E ciò attraverso la figura di Dimitrj Georgevic lo zio presso cui la protagonista vive. Il quale era stato un famoso scienziato ma di lui vediamo il suo trasformarsi in un'icona di se stesso e assistiamo al lento epilogo della sua vita in una tematizzazione, affettuosa quanto dolente, di quello scomparire delle cose e del loro incastonarsi in ciò che finisce. Ma attraverso le sue opere Dimitrj Georgevic continua a vivere e proprio in virtù di quel suo rimanere presente per il tramite della sua fama ella riceve numerose proposte “concernenti i suoi lavori” tra cui una da Stoccolma in cui è invitata a recarsi. Sono trascorsi sette anni da quell'ultima volta a Parigi con Ejnar e cosa ne rimane di quell'amore. In una Stoccolma cupa, fredda e autunnale la Berberova mette in scena l'impietoso disvelamento che sancisce la fine di quell'amore. L'incontro con Ejnar sarà nel segno dell'irraggiungibilità, assorbito come egli è nelle spire di una moglie e di un matrimonio “normali” a cui egli si dedica passivamente, privo ormai di slanci e interessato solo a lasciarsi vivere.

L'impossibilità di rivivere anche solo un vago bagliore di quell'amore le susciterà “rabbia, dolore, offesa”, ma la coscienza di quell'impossibilità non incrinerà il suo sentimento ormai divenuto parte di un destino suo e solo suo. E, sebbene all'antica felicità si sia sostituita un' ”amara e impotente disperazione”, ella, nonostante questo, si accorgerà di amare ancora Ejnar forse ancor più di prima: “E tuttavia lo amavo, amavo soltanto lui, e anche se continuavo a ripetermi che non voleva saperne di me, non lo amavo per questo di meno. E forse lo amavo ancora di più dopo l'incontro a Stoccolma, e tutta la mia vita era piena di un disperato amore per lui, un amore che mi impediva di costruire il mio destino e caricava i miei giorni e le mie notti di un pesante fardello di cui non potevo – e forse non volevo – disfarmi.”, si dirà rientrando a Parigi. Ma per lei nutrire ancora quel sentimento, seppure ormai consapevole che esso è divenuto“un pesante fardello”, significa anche salvarlo, non farlo scomparire nella banalità del nulla, non ridurlo ad una cosa morta Significa in fondo salvare una parte di se stessi, quella che sa che cosa ha significato e che cosa significa quell'amore. E sebbene ella inizi a vivere una lenta riappropriazione di sé, lasciando “quell'enorme, scura, vecchia casa” dello zio e trasferendosi in “un piccolo e luminoso appartamento”, mentre “la vita riprese a scorrere rapida” tuttavia la sua “no man's land” continuava a restare com'era, impressa nel e dal suo passato con Ejnar. E a dare un sigillo all'ormai inevitabile mutarsi delle cose ma, al tempo stesso, a nobilitarne il significato la Berberova descrive l'amorevole lavoro di lei fra i libri dello zio, a cui ella riserva il riconoscimento, quasi devoto, di quel passato da cui egli proviene e a cui appartiene : “...decisi di destinare interamente al passato di Dimitrj Georgevic una delle tre stanze del mio futuro appartamento”, ella racconta, riflettendo queste parole quel mantenere vivo il passato nel presente che alimenta tutto il racconto. E così sarà anche l'epilogo dell'amore nell'ultimo atto e nell'ultimo luogo in cui esso sarà messo in scena: Venezia, simbolo della bellezza di un passato cristallizzato nel presente e, in quanto tale, sempre vivo. E proprio lì, in quel luogo “...dove tutto all'improvviso era divenuto leggero, aereo, di merletto, dove non si poteva (e non se ne aveva affatto desiderio) misurare la vita e se stessi con i vecchi metri, dove tutto all'improvviso era diventato diverso: l'impossibile – possibile, il pesante – leggero, l'irrimediabile – triste e allegro insieme”, si compirà il distacco definitivo da Ejnar, se ne constaterà la sua ormai irrimediabile pochezza, se ne accetterà il relativo disincanto che ne deriva, e si ritroverà la propria libertà.

Scoprendo e raggiungendo il rispetto per se stessi e per quell'amore finalmente liberato dal suo dolore e dalla sua pesantezza e lasciato vivere in se stessi senza rinunciare alla propria dignità. Quell'amore ormai divenuto per sempre passato ma riscattato dagli inganni e dalle illusioni, senza tradire la propria “no man's land” ma, al tempo stesso, senza subirla. E a quella ritrovata leggerezza che è un non voltarsi indietro ma anche un non fuggire, fanno eco le parole che la Berberova appone alla fine del racconto su come congedarsi da Venezia in cui risuona tutto lo sfuggente e segreto incanto da cui è attraversato questo libro: “Tratto peculiare di Venezia: scomparire in un attimo, non correre dietro al treno, non agitare a destra e a sinistra il capo in cenno di saluto come fanno le altre città quando le lasci – svanire in un solo istante, come se non esistesse, come se non fosse mai esistita”.   


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