Intervista a Fiorenzo Grassi


Fiorenzo Grassi è uomo di teatro a tutto tondo. Attivo a Milano a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, si è occupato soprattutto di organizzazione teatrale, con significative esperienze anche come attore e direttore artistico (tra cui il Teatro Fraschini di Pavia e il Teatro Comunale di Vigevano). E’ stato a lungo presidente di Agis Lombarda. Lo incontriamo nella sua attuale veste di direttore organizzativo del Teatro Elfo Puccini di cui è uno degli animatori più riconosciuti.
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Milano e la Lombardia, almeno, devono molto al lavoro di Fiorenzo Grassi, da sempre animato da passione per il suo mestiere, intelligenza e curiosità culturale e quel tanto di spregiudicatezza che non guasta in un lavoro di ricerca creativa.
La trascrizione è il più possibile fedele, anche per non perdere la colorita eloquenza di Fiorenzo.


Qual è il bilancio di questi due primi anni nella nuova sede di corso Buenos Aires?

Abbiamo festeggiato il secondo compleanno l’altra sera, prima dello spettacolo. Al debutto dell’ “Arturo Ui”, Umberto (Orsini) è uscito e gli hanno fatto subito un applauso di sortita… con il suo smoking… e ha detto: “Sono uscito apposta per prendere l’applauso, ma non è per me questo applauso, ma è per questo teatro, che compie due anni”.
C’è un bilancio sociale che è molto incoraggiante e confortante. I risultati sono buoni perché abbiamo avuto un abbraccio da parte della città e devo dire anche una forte attenzione da parte degli abitanti della zona, che sentono questo teatro come il loro teatro finalmente.
Questa zona così popolata e popolosa, tra l’altro con identità molto differenziate,sente il teatro come il proprio teatro insomma, c’è un microcosmo all’interno del macrosistema milanese.
Questo è un dato, tanto per darvi una cifra: l’anno scorso abbiamo fatto 1800 abbonati, quest’anno 3900, dei quali il 70% nuovi. E quindi riteniamo che ci sia stata dedicata un’attenzione particolare. I risultati di gradimento, a giudicare da una valutazione che si può fare a pelle, superficiale, in base  agli spettacoli, ci sembrano molto buoni e devo dire che la struttura nel suo complesso, per le possibilità che offre, è molto utilizzata anche per tutta una serie di avvenimenti, occasioni, che non sono necessariamente di spettacolo, ma convegni, conferenze, presentazioni di libri.


Anche tristi, come l’omaggio a Lucia Mannucci.

Certo anche tristi, come nel caso della Mannucci che abbiamo ospitato molto volentieri. D’altra parte il ciclo della vita nel teatro si rappresenta continuamente, nel teatro si muore e si risorge, quindi insomma in qualche modo l’abbiamo letta anche in questa chiave. Per cui ci sembra che questo teatro sia diventato un punto di riferimento.
Tra l’altro, molta gente si dà appuntamento qui, nel senso che: “Vediamoci al Puccini”, poi vanno da qualche altra parte, oppure entrano, prendono un caffè nel nostro bar, uno va a vedere lo spettacolo, l’altro se ne va per i fatti suoi. Quindi è diventato, a mio modo di vedere, un punto di riferimento della città. Questo lo sentiamo abbastanza a pelle, ovviamente… tanti complimenti per le possibilità che il luogo dà, per la bellezza del luogo… dobbiamo dirlo perché è anche merito dei cittadini di Milano che se lo sono procurato. Il bilancio economico è un bilancio assolutamente lusinghiero, siamo svettati dai tre milioni e due, tre milioni e tre di euro, il giro d’affari che avevamo con le nostre due precedenti sale, ormai a quattro milioni e cento euro.
Non è un balzo colossale fortunatamente, perché sennò avremmo dei problemi grossi, ma comunque presenta delle criticità che abbiamo la necessità di affrontare e risolvere. Il costo della struttura non è uguale alla somma dei costi dei due teatri che avevamo prima, ma molto di più perché è una struttura che ha un’attività contestuale e probabilmente anche più di quello che avevamo prima, un’attività diurna, come dicevo. Ma ha dei costi di mantenimento, non solo di manutenzione, di mantenimento e di gestione. Dobbiamo ricordare che l’Amministrazione che l’ha costruito ha voluto mettere le pompe di calore. Le pompe di calore sono un grande vantaggio per l’ambiente ovviamente, ma sono un grande svantaggio per chi le deve gestire, perché ci costano circa 120.000 euro di energia più 70.000 euro di manutenzione all’anno,  noi prima con i due teatri arrivavamo a spendere 50.000 euro.
C’è stato un aumento esponenziale, avevamo due maschere, ora ne abbiamo dodici. Sono dati concreti, insomma, che mettono in evidenza una difficoltà che si è presentata, non è che non la immaginassimo, ma si è presentata in tutta la sua forza, in tutta la sua compattezza, sulla quale stiamo ragionando, stiamo riflettendo, grandi economie non se ne possono fare, e certamente bisogna cercare risorse. Quest’anno la sfanghiamo anche perché abbiamo con le nostre tre compagnie una tournee colossale che ci ha portato e ci porterà delle entrate straordinarie e che servono per mandare avanti questo impianto, ma non sarà sempre così, per cui è chiaro che bisognerà mettersi intorno a un tavolo anche con gli enti e aprire un ragionamento.


Quali sono i rapporti con le istituzioni?

Si conferma il rapporto con il Comune di Milano che, nonostante le difficoltà, ha confermato le convenzioni e crediamo che possa mantenerle più o meno sullo stesso livello di contribuzione, anche se oggi, alla luce dei fatti, è ampiamente insufficiente. La Regione Lombardia invece purtroppo è un buco nero, nel senso che dà segnali molto inquietanti e negativi, perché il bilancio del 2010 per tutto l’Assessorato alla Cultura comportava un investimento di 57 milioni, il bilancio del 2011 24 milioni, ma la Regione è riuscita a mantenere le convenzioni con i 14 teatri convenzionati. Nel 2012 il bilancio è sceso drammaticamente a 8 milioni. Non ci sono più i soldi per far niente. Quindi, la Regione viene a mancare. Lo Stato è presente, l’anno scorso ci ha anche gratificato con un piccolo incremento. La Provincia di Milano purtroppo è assente, noi siamo dei buoni collaboratori della Provincia in quanto gestiamo la tesoreria dell’abbonamento “Invito a teatro”, quindi abbiamo un piccolo rimborso spese che è stato mantenuto, ma per tutto il resto, devo dire, è latitante, bloccata nelle paludi di una grossa criticità finanziaria ed economica, da cui  non so come potrà uscirne. Quindi poco respiro, poca prospettiva. Detto questo, una volta riusciti a capire come affrontare questo, gap economico che si presenta, dovuto proprio ai costi di struttura, perché l’arte tutto sommato si ripaga, il teatro va bene insomma, l’esperienza è assolutamente positiva, perché come ho già detto gli abbonamenti sono aumentati ed è aumentato anche il pubblico nel suo complesso. Il bilancio degli incassi in sede del 2011 ci fa registrare una cifra vicina al milione e centomila euro. Quindi un dato in incremento.Nel complesso, le entrate sono di circa quattrocento mila euro inferiori alle uscite, su 4 milioni e cento abbiamo 3 milioni e sette di entrate e il problema è quello… nel 2012 riusciremo ad attenuare grazie a questa tournée importante, non si può pensare che sia sempre così.


Quali  sono le opere in tournée?

“The History Boys”, “Il racconto d’inverno”, che è finito da poco, e “Il marito ideale”. E’ stato un grande risultato, ci aiuta moltissimo in questa fase di start up, ma bisogna pensare a  strumenti di maggiore stabilità.


Il vostro teatro era già presente in zona 3 con la sala di via Menotti e con la programmazione presso il Teatro Leonardo. Teatridithalia, che univa il Teatro dell’Elfo e il Teatro di Porta Romana, esiste ancora come sigla?

La nostra società è sempre Teatridithalia, teatro dell’Elfo, impresa sociale. La novità è che dal 20 di ottobre è stata registrata la nostra trasformazione in impresa sociale. Molto brevemente, adesso ci chiamiamo teatro dell’Elfo, impresa sociale, in sigla, però la società è sempre Teatridithalia, teatro dell’Elfo. Il luogo è, forzatamente, Elfo Puccini. Non abbiamo voluto chiamarlo solo Puccini, perché noi non facciamo musica, non ci occupiamo stabilmente di musica, né di lirica, Puccini aveva a che fare relativamente con noi, per cui bisognava associare altro.


Però il Teatro Puccini ha una sua storia…

Sì, ha una sua storia, che si accompagna alla nostra. E’ del 1905, si chiamava Luna Palace, nel 1920 è diventato Politeama Milanese. Era un grande Politeama, faceva il circo, faceva sport, la boxe, il ciclismo, e poi dopo s’è chiamato Puccini. Soltanto  Simonetta Puccini non ha capito l’importanza di coniugare le due cose, non ci ha permesso di ottimizzare un marchio che invece sarebbe stato molto divertente, molto accattivante anche, l’orecchio dell’elfo abbinato all’effige di Puccini. Lei non aveva capito che si trattasse di un orecchio, pensava fosse un fazzoletto verde, le ho spiegato che non era un fazzoletto, ma la cosa non le è piaciuta, abbiamo dovuto rinunciare. Per cui, diciamo che le nostre sigle sono sempre le stesse, la novità importante è che siamo diventati impresa sociale. Impresa sociale vuol dire essere ancora più proiettati in quella funzione che osserviamo da tempo a vantaggio dei cittadini milanesi che è proprio la funzione pubblica del nostro teatro, da quarant’anni a questa parte, ma ancora più accentuata da quando abbiamo fatto la fusione. Il tema della pubblicità del servizio pubblico, erogato anche dalla cultura, non è una cosa che abbiamo inventato noi, ma è una cosa che risale al 1947, al manifesto di fondazione del Piccolo Teatro che noi abbiamo abbracciato e nel quale ci riconosciamo in pieno, non soltanto per l’opportunità che dà , ma perché crediamo che debba essere così. Noi l’abbiamo interpretato sempre in questa direzione, però dobbiamo dire che ormai la funzione pubblica non è più un servizio esclusivamente erogato dalle istituzioni di proprietà pubblica, ormai ci sono i privati come nel nostro caso, che si sono dati questo tipo di cammino, che hanno voluto sposare quest’esperienza e sono a tutti gli effetti degli erogatori di funzioni pubbliche, degli erogatori d’un servizio pubblico culturale. Ormai da tutte le parti, il Sole 24 Ore sta aprendo una vertenza cultura molto importante, una costituente per la cultura. Siamo naturalmente d’accordo con tutte queste azioni e partecipiamo, sottoscriviamo anche i manifesti, ma noi è da tempo che la pensiamo così e da tempo che agiamo in questa direzione.


Il gruppo artistico è sostanzialmente lo stesso di quarant’anni fa e sta funzionando ancora perfettamente. Ma ci sono nuove innervature, qualche nuovo personaggio che sta entrando nel gruppo storico del Teatro dell’Elfo?

Sì, assolutamente. Intanto è entrata come socia Elena Russo Arman, attrice che noi scritturavamo abitualmente, che ha deciso di condividere con noi questa esperienza.  E’ entrato Rino De Pace, che è il direttore artistico di MilanoOltre, quindi sempre nel campo artistico. Poi, basti un’esperienza per tutti, quella di “The History Boys”, con i giovani della classe, dà il segnale. Ma da tempo noi coltiviamo una platea di giovani artisti che stanno anche non solo crescendo artisticamente, ma anche di età.


Non esiste però una vera e propria scuola…

Ma noi la scuola la facciamo nei fatti. Elio (De Capitani) e Ferdinando (Bruni) si ammazzano di provini, perché sono sempre alla ricerca di quella novità, di quella freschezza... Perché noi li costruiamo gli attori, ma a volte ce li portano anche via quelli che hanno la possibilità di pagarli di più di quanto non possiamo fare noi. Però a questi attori, che a volte diventano anche registi, noi garantiamo dei periodi lunghi di lavoro e garantiamo anche la possibilità di dare corpo alle loro idee e alle loro avventure. Alessandro Genovesi, un caso su tutti, ci ha proposto “Happy Family”. Lo ha letto il nostro nucleo storico, fortunatamente ancora tutto intatto, che è passato da fare i giovani a fare i padri nobili…Noi l’abbiamo letto al nostro pubblico, una selezione di abbonati, il copione è piaciuto, lo abbiamo realizzato, chiedendo a Genovesi di assumersi la responsabilità di dirigerlo, non soltanto di fare il protagonista. Lo abbiamo fatto, lo abbiamo rappresentato a Milano, lo abbiamo mandato in tournée, lo abbiamo nuovamente presentato a Milano e lo abbiamo rimandato in tournée. Dopo di che, Salvatores se ne è accorto, gli è piaciuto e ha fatto il film. E Genovesi adesso ha fatto un film suo. Questo per noi significa fare scuola, significa dare gli strumenti ai giovani.. Non ci interessa fare un’attività di corsi teatrali fine a se stessa per creare soltanto delle aspettative, ci sono tante scuole che lo fanno, ce ne sono anche di pubbliche. Loro fanno quel mestiere lì. Noi vogliamo fare una bottega, noi vogliamo anche farli lavorare quelli che da noi vengono a imparare. Magari cominciano con parti piccole, di non grande responsabilità, ma che poi dopo col tempo crescono. Elena (Russo Arman) è stato uno di questi casi. Elena ha un talento veramente notevole, quindi le affidiamo dei ruoli di responsabilità, addirittura degli spettacoli fatti da lei come “Dove sei, o Musa. Sonetti di William Shakespeare” con le musiche di John Dowland, lo spettacolo che le abbiamo prodotto e che abbiamo rappresentato nella nostra stagione dentro una cornice. Tutto deve avere una contesto perché le cose fatte semplicemente per essere fatte, buttate come delle meteore, alla fine non lasciano un tracciato. Quindi il rinnovamento generazionale ci sta molto a cuore ma ce ne curiamo con il nostro metodo e i nostri strumenti, attraverso il lavoro.


Chi è Fiorenzo Grassi e cosa ha fatto per il teatro milanese?

Essendomi innamorato di questo mestiere, ho semplicemente lavorato. Nel 1963, a una replica di “Vita di Galileo” di Strehler ho detto: “Io devo fare quel mestiere lì”… mi sarebbe anche piaciuto fare il cantante, per andare a Sanremo… Devo dire che “Galileo” ha segnato una molla molto importante per me. Ho aperto diversi teatri in questa città, a partire dal mio teatro mai dimenticato nel cuore, che è il Teatro Uomo, che non ho aperto da solo, avevo dei compagni di strada ai quali ero molto legato e nei confronti dei quali  mantengo ancora un sentimento affettuoso. L’ ho aperto con Paolo Pivetti e Grazia Pivetti, i genitori delle Pivetti, e un altro signore che faceva il regista, che si chiama Virgilio Bardella. Io recitavo al Teatro Litta, con le compagnie amatoriali, con una compagnia in particolare, che era quella del Commendatore Tarabusi, che aveva in repertorio opere di Dario Niccodemi e di Giuseppe Giacosa come “La morte civile” e “Tristi amori”. Mi piaceva molto. Lì c’era un attore che recitava con me che mi ha detto: “Guarda che stanno aprendo un nuovo gruppo, una compagnia interessante, che potrebbe andare a recitare al San Babila (erano gli anni in cui si apriva il Teatro San Babila), hai voglia di venire?”. Io sono andato, queste persone mi sono molto piaciute, mi è piaciuto il progetto che avevano, la traiettoria, e cominciammo con un testo di Ingmar Bergman,  “Il settimo sigillo” sostanzialmente. La scrittura teatrale si chiamava “Pittura su legno”, io ho cominciato come attore, allora non c’erano scuole di organizzazione, ma non sapevo neanche di avere una predisposizione a far l’organizzatore. E’ stata questa un’esperienza che mi ha talmente coinvolto da vicino, che  ho cominciato a cercare le piazze, e le ho anche trovate. E quindi mi sono inventato organizzatore, poi ho capito che le due cose non potevano andare di pari passo. Dopo il Teatro Uomo nelle sue due sedi di corso Manusardi e di via Gulli, ho aperto il Teatro Verdi di via Pastrengo e, ovviamente, il Teatro di Porta Romana. Il Teatro Uomo in corso Manusardi era un luogo meraviglioso: ancora l’altra sera c’era Carlo Cecchi  mi diceva: “Ma che bel teatro”. Non aveva i bagni, né i camerini, d’inverno c’erano gli spifferi… ma si respirava un clima… forse era determinato dal fatto che in teatro c’era l’effige di Don Davide Albertario, che era stato parroco di San Gottardo in Corso, e che, oltre a essere scapigliato, era stato uno degli oppositori di Bava Beccaris durante i moti del ’98, quindi un sacerdote molto impegnato. La sede dell’Elfo di via Ciro Menotti l’ho trovata io e ho fatto tutti gli accordi per la Compagnia Stabile Milanese. Carletto Colombo mi aveva chiesto di dargli una mano, perché voleva ampliare il Gerolamo, che era diventato insufficiente per le molte richieste del pubblico. E altro ancora…


E l’esperienza del Teatro di Porta Romana?

La geografia cittadina, in qualche modo, mi ha visto abbastanza presente, e poi le tante battaglie civiche e il tanto repertorio.Uno degli spettacoli del Teatro Uomo che non dimenticherò mai più,oltre “ I Persiani” che mi videro interprete come messaggero per cinquecento repliche, giravamo tutta l’Italia, facevamo l’ira di Dio…,è “Nella giungla delle città” di Brecht, con una compagnia che oggi non sarebbe più possibile realizzare: Gigi Pistilli, Umberto Ceriani,  Anna Bonaiuto, che era appena uscita dall’Accademia, Regina Bianchi, Carlo Bagno, Flavio Bonacci, Francesca Marciano, che da lì è poi diventata giornalista, quindi ci sono delle cose, nelle mie tappe, indimenticabili. Ho sempre avuto una propensione a vedere strategicamente anche il mestiere, da lì la costruzione del festival MilanoOltre, che non ho immaginato solo io, ma abbiamo immaginato tutti insieme. Due teatri che si facevano la guerra (Teatro dell’Elfo e Teatro di Porta Romana) alla fine hanno detto: “Ma perché dobbiamo essere così ancorati a un vecchio modo di pensare le cose? Lavoriamo per lo stesso pubblico sostanzialmente, vediamo, facciamo un esperimento”, e abbiamo fatto il festival. Era il 1992.. E da lì la fusione dei due teatri, dalla fusione è partito il progetto Puccini, che prima ancora di essere un progetto sposato e condiviso dai due teatri fusi, da Teatridithalia, era un progetto di valore civico per Fiorenzo Grassi che voleva salvare questo teatro da possibili destinazioni improprie.


Supermercati vari…

Addirittura una palestra di scuola, o anche un luogo… io non ho niente contro il musical, anzi per carità, però un luogo da destinare al musical. A Milano c’era bisogno di dare spazi a teatri di prosa che occupavano dei luoghi anche recuperati generosamente come i cinema. Perché poi appunto io mi sono imbattuto nella saletta parrocchiale di corso Manusardi?  Perché nessuno voleva prendere i miei spettacoli, ho dovuto aprire un mio teatro, io sarei andato al Teatro dell’Arte, ma l’allora gestione del Teatro dell’Arte non era interessata. Remigio Paone mi scrisse addirittura una lettera dicendomi che i miei spettacoli non interessavano ai suoi teatri. Siamo anche diventati amici, peraltro io ho di quegli anni una visione equilibrata sui due grandi protagonisti. Paolo Grassi, indiscutibile, uomo che ha inventato anche un nuovo percorso organizzativo, ma anche Remigio Paone non era una persona di poco conto, anzi di grande spessore, un uomo che poi si è anche lasciato andare ad avventure artistiche, le più varie. Ha fatto l’impresario del Nuovo, dell’Odeon, del Manzoni, dell’Eliseo a Roma. Era un uomo che aveva delle grandi sfaccettature, un’esperienza che sarebbe molto interessante recuperare. Sono stati anni meravigliosi quelli, dove c’era il Teatro Durini Borletti. Al Tteatro Durini, oltre a fare la Commedia degli Zanni con  l’Avogaria, hanno fatto anche “ ‘ysteries” del Living Theatre, uno spettacolo assolutamente penetrante e indimenticabile. C’era il Teatro del Convegno, dove Enzo Ferrieri, che ho avuto l’onore di conoscere, un critico che proveniva dagli anni dell’Anteguerra, faceva tutto teatro italiano, purtroppo miseramente finiti tutti. Perché quando tu hai una linea precisa magari non interessi il pubblico che ha sempre bisogno del varietà. Ho dato quello che avrei dovuto dare, ma ho anche ricevuto molto, e sono molto appagato dal mio lavoro.


Ma non è  ancora finita, l’avventura continua…

No, ancora non è finita, spero di poter dare ancora qualcosa, c’è ancora l’esperienza del Teatro Fraschini di Pavia di cui sono direttore artistico da trent’anni. E’ stata un’occasione, mi hanno chiamato, la situazione era veramente drammatica per liti interne all’Amministrazione. A me tocca sempre mettermi sulle spalle delle cose, ho dovuto rimboccarmi le maniche, ho avuto un lungo periodo di chiusura del teatro che veramente mi è pesata molto, dove abbiamo fatto esperienze varie dal tendone al cinema, anche per certi versi drammatiche. Seguire il lavoro di ristrutturazione del teatro è stato anche questo un privilegio, è un teatro veramente magnifico, un teatro all’italiana del 1773, conservato molto bene. Sono sempre stato aiutato dal fatto che sono cose che hanno una loro unicità, a partire dalla cosa cui il mio pensiero era rivolto quotidianamente ed esclusivamente, il mio teatrino in corso Manusardi, dove è passata tutta l’avanguardia italiana di quegli anni, tutta. Io e Carlo Cecchi  siamo diventati amici perché il suo primo spettacolo è venuto al Teatro Uomo, l’ho fatto conoscere ai milanesi. Tutte queste esperienze mi hanno molto riempito, creandomi anche ansie, preoccupazioni, tormenti... il Fraschini è una di queste, che un giorno mi toccherà anche lasciare, non ci voglio pensare, ma che comunque mi hanno riempito la vita.
Quando abbiamo chiuso il Teatro Uomo; Paganini gli ha dedicato un articolo in Cose memorabili su La Notte. Maria Grazia Gregori, poco prima che chiudessimo, aveva scritto un articolo dandomi, in positivo, del barricadiero. A quei tempi, Tognoli voleva che andassi a dirigere Milano Aperta. Ma ero disperato all’idea di lasciare il Teatro Uomo, ho avuto anche una crisi di depressione. E’ arrivato allora Giuseppe Di Leva che però non aveva voglia di occuparsene veramente, anche perché c’erano trecento milioni di lire di debiti, ma c’erano anche dei crediti. Mi aveva dato una mazzata pesante “Nella giungla delle città”, bellissimo spettacolo però purtroppo in italo-americano. La gente non veniva. E così il teatro venne chiuso e Tognoli ha chiamato Di Leva. Forse è stato meglio così.





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