Lambrate, un quartiere tra storia e futuro (II parte)

Proseguiamo la chiacchierata con Sergio De La Pierre, autore della ricerca realizzata per Vivilambrate, e approfondiamo questa volta il tema del cambiamento nella composizione sociale del quartiere e del bisogno di aggregazione espresso dai suoi abitanti.
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Le trasformazioni urbane generano quasi sempre cambiamenti nella composizione sociale e nel vissuto del quartiere da parte dei suoi abitanti e nella ricerca di De La Pierre quest’aspetto è molto ben trattato.  Da questo punto di vista, una delle prime caratteristiche messe in evidenza è la forte “tradizione di accoglienza” di Lambrate: integrazione città/campagna, “inclusione” degli operai che arrivavano “da fuori” per le grandi fabbriche, i pendolari…  e oggi, come è la situazione?  

Qual è, oggi, il rapporto fra i vecchi abitanti dello storico cuore di Conte Rosso e “i nuovi arrivati” del Rubattino, o i creativi del Lambrate Design District?
Come ho detto nella precedente intervista, una forte spinta alla coesione sociale e allo spirito di inclusione sembra derivare a Lambrate da una certa “separatezza” dalla città che l’ha caratterizzata da lungo tempo, da prima di essere Comune autonomo fino alla “recinzione” ferroviaria che l’ha come avvolta da inizio Novecento. Chi arrivava a Lambrate, fossero gli operai delle grandi fabbriche o gli immigrati dal Sud Italia o, in tempi recenti, i nuovi immigrati, ha trovato quasi sempre un clima di accoglienza assai positivo. E questo sembra riconfermarsi oggi, quando si rinnovano un po’ i fasti delle vecchie osterie, col moltiplicarsi di luoghi di aggregazione, pub, feste, Fuori Salone: tutti elementi che concorrono a creare buoni rapporti tra i residenti “storici” – ancora legati alla tradizione della “Lambrate operaia” – e i nuovi ceti “creativi” che si sono diffusi a cavallo del nuovo secolo. Molte testimonianze parlano di interesse e curiosità reciproca tra queste due componenti; il che non toglie che non bisogna sottovalutare il rischio di “frammentazione sociale” se questo spirito di “rinascita locale inclusiva” non venisse più coltivato.

Tu usi termini quali “città visibile” e “città degli esclusi”. Definizioni molto evocative. Ma di che si tratta più esattamente? Quando parli di “esclusi” non ti riferisci solo ai ROM, giusto?
No, l’esclusione sociale non riguarda solo i rom, i quali tra l’altro godono di una qualche coesione comunitaria al loro interno e hanno conosciuto anche esperienze di integrazione molto positive. Quella che ho chiamato “faglia tra città visibile e città invisibile” riguarda, da un lato, il crescere di ceti poveri ed emarginati  - gli anziani soli e i giovani colpiti dalla disoccupazione -, dall’altro lato investe gli stessi ceti diciamo “non poveri”, ma che, nonostante tutte le positività di cui abbiamo detto, esprimono un forte disagio per la perdita, o il rischio di perdita, di forme di aggregazione sociale per loro abituali, e il timore che il futuro riservi loro un destino di isolamento in una Lambrate meno “coesa” del passato.

Quando parli di forte disagio degli anziani e di diverse componenti giovanili, si tratta di considerazioni generali o pensi che questo problema sia presente qui più che altrove?

Non penso che a Lambrate questi problemi siano più presenti che altrove. Semmai sono vissuti male proprio per il “ricordo” di un “clima” di questo villaggio-fabbrica che si sa perso per sempre.

I centri di aggregazione nella Lambrate operaia erano sovradimensionati rispetto al numero di residenti e tuttora, seppur ridimensionati, sembrano abbastanza numerosi. Eppure i lambratesi ne lamentano la mancanza. Secondo te, come mai?  
Questo è un punto su cui ci siamo interrogati parecchio. Nella ricerca si fa un lungo elenco di luoghi di aggregazione e ritrovo che riguardano un po’ tutti i ceti sociali: l’unica mancanza vera sembra essere quella riguardante la  fascia centrale di età, quella degli adulti con bambini che finiscono per ritrovarsi solo nei luoghi di gioco dei figli – mentre trent’anni fa si ritrovavano nelle osterie, bocciofile, dopolavoro ecc. Comunque resta il fatto che “la mancanza di luoghi di aggregazione” resta una lamentela diffusa un po’ in tutti i ceti. L’ipotesi che facciamo allora è che si tratti di una lamentela “metaforica”: quel che manca non sono i luoghi di aggregazione, ma è l’aggregazione stessa, o meglio la sensazione che per il futuro di Lambrate occorre costruire un surplus di socialità proprio per affrontare sfide nuove rispetto al passato.

Mi ha colpito molto come, negli elenchi che hai citato, i luoghi di socialità siano separati e distinti per i diversi gruppi: per le badanti ucraine o per gli immigrati dalle Mauritius… Che lettura dai di questa frammentazione delle componenti sociali?
Una certa “specializzazione” dei luoghi di aggregazione – per età, per interessi, per credo religioso - può essere positiva in certe condizioni. Tuttavia l’apertura prima o poi diventa necessaria. Qualcosa si sta già muovendo: ad esempio il circolo ACLI, che è sempre stato piuttosto inclusivo, da circa due anni è riuscito ad aprirsi a componenti giovanili molto attive con la costituzione della “Cooperativa Casa del Quartiere”; la biblioteca di Valvassori Peroni è un luogo aperto a tutti; altrettanto vale per le feste, da Lambrateinfesta al Fuori Salone, dai Sabati di Lambrate alle feste all’Ortica.

Qui le associazioni di volontariato sono molte e si respira una certa vivacità progettuale, anche se spesso disomogenea. Che ruolo possono avere le associazioni nello sviluppo della zona. Quali sono i rischi, se ce ne sono, e quali le opportunità?
A me pare che un problema riguardante l’associazionismo e la cittadinanza attiva non sia tanto la loro scarsa capacità di incidenza, quanto la scarsa consapevolezza dell’importanza strategica del loro operare. Mi spiego: spesso quando si intervista un cittadino o un’associazione che opera per la rinascita “virtuosa” di un pezzo di città o di territorio, si scopre che queste persone sono come stupite e incredule del fatto che un “ricercatore” dia loro tutta quella importanza. Quando arrivano a comprendere che loro stanno in realtà “cambiando il mondo” perché attivare i cittadini è ormai l’unico modo per farlo, sono anche spinti a “uscire dal loro orticello” e relazionarsi con altri gruppi e istituzioni per una declinazione più ampia dei loro stessi progetti.

Nelle passeggiate di quartiere e nelle edizioni di “C’è vita in piazza”, i cittadini e i bambini sono stati chiamati a esprimere i loro desiderata e le loro visioni sul futuro di Piazza di Rimembranze e del quartiere. Che seguito potranno avere questi primi momenti di partecipazione?
Intanto ho cercato di ipotizzare una sintesi della miriade di desideri e “sogni” emersi in quelle occasioni che citi: e l’ho espressa come ricerca di una aggregazione festosa, di una più ricca socializzazione. Sembra che la gente senta il bisogno di “conoscersi meglio”, vedere una piazza e un quartiere ricco di vita, di verde, e anche di solidarietà verso gli emarginati. La “partecipazione”, di cui tanto si parla, forse deve imparare a partire dalla valorizzazione di questi desideri, che in parte sono già esperienze in atto.

È possibile prevedere, o incoraggiare, per questo quartiere lo sviluppo di forme di co-progettazione partecipata? Quali sono le opportunità e quali gli ostacoli?
Il Report della ricerca si conclude con un invito al Municipio 3 a farsi promotore di percorsi di progettazione partecipata. Esperienze ovviamente indispensabili per dare corpo e sostanza a un vero protagonismo degli abitanti, che non può restare al livello di iniziative frammentate e di una serie di “eventi” per quanto positivi.
Le opportunità fondamentali sono già contenute nella carica di attivismo e nella ricchezza di un associazionismo che vengono descritti ampiamente nel Report.
Un ostacolo può essere un certo timore del Municipio e del Comune a “buttarsi” coraggiosamente in percorsi di partecipazione, magari all’inizio minimali e sperimentali.

Dunque, mi stai dicendo che la partecipazione è possibile solo su progetti marginali?
È ovvio che non bisogna dimenticare i “grandi progetti” che incombono su Lambrate negativamente se gestiti in modo speculativo (Caserma Rubattino,  Scalo ferroviario. Destino di Città Studi) e di questo si parla anche nel Report, ma va ringraziata la lettrice che lo ha ricordato a commento della mia prima intervista.
Tuttavia, visto che a volte chi parla e opera nel campo della partecipazione viene accusato di cecità di fronte ai “grandi temi strutturali” che condizionano i territori e le città contemporanee, quasi che si accontentassero di piccole operazioni di risulta (alcuni sociologi le chiamano “bricolage” sociale), vorrei che entrasse nella discussione anche qualche domanda “al contrario”: ammesso che è indispensabile avere analisi corrette e rigorose sui grandi progetti di trasformazione urbana che hanno impatti negativi sui territori e sulla loro qualità della vita, qual è il modo migliore per contrastarli?
Si è consapevoli del passaggio culturale epocale implicito nella cultura della vera partecipazione? Se qui si mette al centro la soggettività dei cittadini, degli abitanti, delle associazioni, non si pensa che questo, alla lunga, sia più decisivo delle critiche puramente verbali fatte da esperti o politici che spesso si limitano alla critica, senza impegnarsi nella costruzione effettiva della pari dignità tra istituzioni e soggettività viva dei cittadini?


“Pari dignità tra istituzioni e cittadini” un concetto importante …

Sì, è questa, mi pare, la sfida e la scommessa di una politica di autentico coinvolgimento dei cittadini. Non importa se percorsi di progettazione partecipata iniziano su piccola o grande scala urbana, l’importante è che “inizino da qualche parte”, con convinzione da parte sia dei cittadini che dell’amministrazione locale. A questo punto è possibile che si diffonda anche la consapevolezza della “lentezza” dei tempi non brevi necessari per costruire un progetto, che devono anche comprendere il “tempo interiore”, necessario per tutti per compiere una svolta culturale che è di grandissima portata.
Un esempio negativo ci viene proprio dalla questione del destino di Città Studi in connessione con l’area Expo: che cosa poteva aspettarsi un’amministrazione, se non una dura opposizione da parte di tanti cittadini della zona, una volta che presenta come “consultazione” quella che di fatto è stata vissuta come una semplice comunicazione di decisioni già prese? Molti parlano di débat public alla francese, che è una tecnica partecipativa che si può adottare proprio per le “grandi trasformazioni”. Ebbene, per cose di quel genere bisogna adottarla, non solo annunciarla.



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